Il 100% della popolazione italiana respira aria più inquinata di quanto l’Organizzazione mondiale della sanità consideri sicuro. Non è un’emergenza che fa notizia, non provoca allarmi immediati. Eppure accade ogni giorno, in ogni città, con conseguenze sulla salute che si vedranno negli anni. È il paradosso di questa epoca: i danni più gravi sono quelli che non si vedono.
I dati del rapporto ISPRA sullo stato dell’ambiente in Italia, quello del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente e quello dell’Agenzia europea per l’ambiente, presentati tutti oggi, martedì 28 ottobre, alla Camera dei Deputati, disegnano esattamente questo: un paesaggio in trasformazione, dove alcuni elementi si stanno sgretolando mentre altri, contro ogni previsione, stanno rifiorendo. Non è il racconto di un disastro annunciato, né quello di una storia a lieto fine. È piuttosto la cronaca di un paese – e di un continente – che procede a velocità diverse, con avanzamenti sorprendenti in alcuni settori e ritardi preoccupanti in altri.
La febbre del pianeta che non scende
Il 2024 passerà alla storia come il primo anno in cui la temperatura media globale ha superato la soglia simbolica di 1,5°C rispetto all’era preindustriale. In Italia, l’anomalia è stata ancora più marcata: 1,33°C in più rispetto alla media climatologica recente. L’anno più caldo da quando si è iniziato a misurare il termometro del pianeta, il 1961. Un record che nessuno vorrebbe battere, eppure continua a essere infranto.
L’Europa intera sta vivendo questa accelerazione: il continente si sta riscaldando più velocemente di qualsiasi altra area del Pianeta, con temperature che aumentano al doppio della media globale. L’anno scorso, l’Europa orientale ha affrontato ondate di calore e siccità senza precedenti, mentre quella occidentale è stata colpita da precipitazioni intense e inondazioni diffuse. Sono tutti sintomi dello stesso malanno, manifestazioni diverse di un unico squilibrio.
Mentre le temperature salgono, i ghiacciai alpini perdono massa ogni anno a un ritmo sostenuto. Quel ghiaccio che si fonde diventa acqua, e quell’acqua alimenta l’innalzamento del livello del mare: millimetro dopo millimetro, poco ma irreversibilmente. Nel frattempo, gli eventi estremi si moltiplicano e si intensificano.
In Italia, le perdite economiche che provocano sono quintuplicate dal 2017, un dato che racconta quanto velocemente stia cambiando il clima e quanto impreparati si sia di fronte a questa accelerazione. A livello europeo si parla di costi pari a 738 miliardi di euro dal 1980 al 2023, di cui 43,9 miliardi solo nel 2023. Nel maggio 2023, l’Emilia-Romagna ha vissuto sulla propria pelle cosa significa questa febbre del pianeta: 17 vittime e 8,5 miliardi di euro di danni causati da piogge torrenziali che un tempo sarebbero state impensabili. Non sono solo numeri, sono vite stravolte, case abbandonate, paesi da ricostruire. Sono la prova che il cambiamento climatico non è più un problema futuro, ma una realtà presente che bussa alla porta con violenza crescente.
Di fronte a tutto questo, qualcosa si sta muovendo, anche se forse non abbastanza velocemente. L’Unione Europea può ancora essere considerata come leader mondiale nella lotta ai cambiamenti climatici: ha ridotto le emissioni di gas serra mentre raddoppiava la quota di energie rinnovabili dal 2005. L’Italia mostra invece sia progressi che ritardi: le emissioni italiane di gas serra sono scese del 26,4% rispetto al 1990: meno della media europea (36,3%), è vero, ma comunque un segnale di cambiamento. Il problema sono i trasporti, quelli che tutti usano ogni giorno: lì le emissioni sono cresciute del 6,7%, vanificando parte degli sforzi fatti altrove.
Ed è proprio qui che si concentra la sfida più grande: raggiungere l’obiettivo europeo di riduzione del 43,7% delle emissioni entro il 2030 nei settori non industriali. Case, trasporti, piccole imprese. Quelli che riguardano tutti, quotidianamente, che richiedono cambiamenti negli stili di vita oltre che nelle politiche. Le proiezioni dicono che il paese si fermerà al 41%. Due punti e mezzo percentuali di differenza, un divario piccolo solo in apparenza.
Il cerchio che (quasi) si chiude
Se sul clima bisogna ancora correre, sull’economia circolare l’Italia ha una storia diversa da raccontare. Una storia di cui andare orgogliosi, fatta di creatività e capacità di fare molto con poco – un’attitudine che forse il paese si porta dietro dai tempi difficili del dopoguerra, quando la necessità aveva insegnato a non buttare via nulla.
I numeri parlano chiaro: il 20,8% dei materiali utilizzati proviene dal riciclo, quasi il doppio della media europea dell’11,8%. L’Italia è seconda in Europa solo ai Paesi Bassi. Non è un caso isolato. Il 76,5% dei rifiuti trattati viene riciclato, contro il 55% europeo. E anche i rifiuti urbani, quelli che escono dalle case ogni giorno, vengono riciclati al 50,8%, già oltre l’obiettivo del 2020 e sopra la media UE. È un primato che ha radici profonde: negli ultimi quindici anni, l’Europa ha compiuto significativi progressi nell’aumento del riciclo dei rifiuti e dell’efficienza delle risorse, e l’Italia si è mossa in questa direzione con particolare efficacia. Montagne di plastica, vetro, carta che si separano ogni settimana nelle case italiane, a volte con un senso di fatica, a volte chiedendosi se serva davvero: questi numeri dicono che sì, serve. E funziona. Quel gesto quotidiano, moltiplicato per milioni di persone, sta davvero facendo la differenza.
Ma, come sempre, accanto ai successi ci sono le criticità che non si possono ignorare. Si producono ancora troppi rifiuti: 66 chili ogni 1.000 euro di PIL, contro i 60 della media europea. Il che significa che l’economia italiana, per crescere, consuma più risorse e genera più scarti di quanto facciano altri paesi europei. E c’è un altro punto debole strutturale che accomuna l’Italia al resto del continente: la dipendenza dall’estero per le materie prime.
L’Italia importa 5,3 tonnellate pro capite di materiali, contro le 3,4 europee. L’economia circolare nazionale gira bene, ricicla bene, ma ha bisogno di materia prima per girare. È una vulnerabilità strategica, oltre che ambientale, che rende il paese esposto agli shock delle catene di approvvigionamento globali.
L’aria che si respira (o che si vorrebbe respirare)
Torniamo a quel dato dell’inizio: il 100% della popolazione italiana respira aria più inquinata di quanto sarebbe consentito. Eppure qualcosa sta cambiando, anche qui. Le emissioni di PM10 sono calate del 42,9% dal 1990, quelle di PM2,5 del 41%. Sono riduzioni importanti, frutto di normative più stringenti, veicoli meno inquinanti, industrie più pulite. A livello europeo i progressi sono ancora più marcati: le morti premature attribuibili al PM2,5 sono diminuite del 45% tra il 2005 e il 2022 contro il 32% italiano. Il problema è che non bastano ancora.
Il 99,7% delle stazioni di monitoraggio registra valori superiori alle soglie dell’Organizzazione mondiale della sanità per le polveri sottili. Tutti respirano aria inquinata, anche se in misura diversa. Il Bacino Padano resta l’area più critica, intrappolato com’è tra montagne che bloccano la circolazione dell’aria e una concentrazione di attività industriali, agricole e traffico che produce inquinanti in abbondanza. Ma anche lì, lentamente, le cose stanno migliorando: nel 2023, per la prima volta, tutte le stazioni hanno rispettato il limite annuale di PM10. È un piccolo traguardo, forse, ma testimonia che quando si interviene con decisione i risultati arrivano.
L’acqua, una risorsa tra tutela e minacce
Se l’aria racconta una storia di miglioramenti lenti ma costanti, l’acqua disegna un quadro più contraddittorio, sia in Italia che in Europa. Il 91% delle acque di balneazione italiane è in stato eccellente – un dato che fa brillare gli occhi dei turisti e sostiene un pezzo importante dell’economia nazionale. Ma basta spostare lo sguardo dai mari alle acque interne perché il quadro si faccia più opaco: solo il 43% dei fiumi e dei laghi raggiunge un buono stato ecologico. È un problema continentale.
Le risorse idriche europee sono sotto forte pressione e lo stress idrico colpisce un terzo della popolazione e del territorio dell’Unione. Mantenere ecosistemi acquatici sani, proteggere i bacini idrografici e garantire che le risorse idriche sotterranee siano reintegrate è fondamentale per assicurare la futura resilienza idrica dell’Europa.
E poi ci sono i pesticidi, presenza invisibile ma pervasiva. Nel 28,3% delle acque superficiali e nel 6,8% di quelle sotterranee i livelli superano i limiti di legge. Sono dati che sorprendono, perché l’Italia ha ridotto del 32,7% l’uso di prodotti fitosanitari dal 2014 e quasi un quinto della superficie agricola (il 19,8%) è coltivata con metodo biologico. Come si spiega questa contraddizione? Con il tempo della natura, che non è quello delle decisioni politiche.
I pesticidi persistono nell’ambiente per anni, si accumulano nei sedimenti, viaggiano con le acque sotterranee e superficiali. Le scelte di oggi si vedranno tra dieci, vent’anni. E le contaminazioni di oggi sono l’eredità di ieri. Anche i mari, nonostante le acque balneari eccellenti, portano i segni della pressione umana. Sulle spiagge italiane si trovano 250 oggetti ogni 100 metri di costa. L’obiettivo europeo è 20. Un divario enorme, che parla di un rapporto ancora troppo distratto con l’ambiente. La plastica che viene riversata negli oceani non scompare: si frantuma in pezzi sempre più piccoli, si disperde nella colonna d’acqua, entra nella catena alimentare. E ritorna indietro, nei pesci che finiscono sulle tavole, in un cerchio che si chiude in modo inquietante.
Il verde che resiste (e quello che scompare)
L’Italia è un hotspot di biodiversità: oltre 58.000 specie animali, più di 8.200 specie di piante vascolari, di cui il 21% endemiche, che non esistono da nessun’altra parte al mondo. È un patrimonio che fa invidia a molti paesi, frutto di una storia geologica complessa, di climi diversi che si incontrano, di millenni di coevoluzione tra uomo e natura. Ma è anche un patrimonio sotto assedio.
Il 28% dei vertebrati e il 24% delle piante valutate sono a rischio di estinzione. Le cause sono molteplici e si intrecciano: il consumo di suolo che continua a divorare 21,5 ettari al giorno – quasi 8.000 ettari nel 2024 – trasformando campi e boschi in cemento e asfalto. Terreni che non torneranno mai più a essere naturali, perché l’impermeabilizzazione del suolo è un processo quasi irreversibile.
Le aree protette, che dovrebbero essere lo scudo contro questa erosione della natura, coprono il 21,7% del territorio: un dato importante, che colloca l’Italia tra i paesi europei più virtuosi, ma ancora lontano dal 30% che l’Europa chiede di raggiungere entro il 2030. E proteggere non basta, se fuori dalle aree tutelate la pressione aumenta, se gli habitat si frammentano, se le specie perdono i corridoi ecologici che permettono loro di spostarsi e riprodursi.
Eppure, anche qui, c’è una storia positiva da raccontare. Le foreste italiane continuano a crescere, superando gli 11 milioni di ettari. Dove l’agricoltura si è ritirata, dove le montagne si sono spopolate, gli alberi sono tornati. Silenziosamente, senza bisogno di grandi progetti, la natura si è ripresa i suoi spazi. Sono polmoni verdi che assorbono carbonio, custodiscono biodiversità, proteggono i suoli dall’erosione. Dimostrano che, quando si dà spazio alla natura, questa risponde. Ma è anche una storia che racconta di abbandono, di territori che cambiano pelle, di una trasformazione demografica e sociale che ridisegna il paesaggio italiano.
L’80% dei parchi nazionali ha adottato la Carta europea per il turismo sostenibile, un impegno concreto verso pratiche più rispettose dell’ambiente e delle comunità locali. È un segnale importante, che dimostra consapevolezza e volontà di cambiamento. Ma i numeri raccontano anche l’altra faccia della medaglia: il turismo consuma il 4,2% dell’energia elettrica nazionale, produce 15,7 kg di rifiuti pro capite, artificializza il 22,9% delle coste entro 300 metri dal mare. Sono cifre che pesano, che si traducono in pressione sugli ecosistemi, in consumo di risorse, in trasformazione dei territori.
Il punto più critico resta la mobilità: il 69,5% dei viaggi interni avviene in auto. Servono treni, mezzi pubblici, mobilità dolce: biciclette, percorsi pedonali, trasporti condivisi. Non solo per ridurre le emissioni, ma per cambiare il modo stesso in cui si vivono e si attraversano i territori. Per rallentare, per guardare con altri occhi, per lasciare un’impronta più leggera.
Il corridore a metà strada
Come quell’aria che tutti respirano ogni giorno senza accorgersi della sua qualità, anche questo paese è in trasformazione silenziosa. Si sta sciogliendo qualcosa di vecchio – un modello di sviluppo insostenibile, inquinante, divoratore di risorse – mentre si solidifica qualcosa di nuovo: un’economia più circolare che recupera e ricicla, foreste che tornano a crescere dove l’uomo si è ritirato, energie rinnovabili che sostituiscono a poco a poco i combustibili fossili.
Ma la domanda che i dati ISPRA e dell’Agenzia europea dell’ambiente pongono è semplice e angosciante: si sta andando abbastanza veloce? Gli obiettivi europei del 2030 non sono capricci burocratici o numeri astratti decisi a Bruxelles. Sono la differenza tra un pianeta vivibile e uno che respinge l’umanità.
Come ha dichiarato Teresa Ribera, vicepresidente esecutiva della Commissione europea, “l’Europa deve mantenere la rotta e persino accelerare le proprie ambizioni in materia di clima e ambiente. I recenti eventi meteorologici estremi dimostrano quanto diventino fragili la nostra prosperità e la nostra sicurezza quando la natura si degrada e gli impatti climatici si intensificano”. I numeri dicono che la transizione ecologica non è un’utopia: sta già accadendo, pezzo dopo pezzo, settore dopo settore. Ma dicono anche, con chiarezza forse brutale, che non ci si può permettere rallentamenti né distrazioni.
In copertina: foto di Jina Awkar, Unsplash
