Nonostante l’inflazione e l’incerta situazione geopolitica globale, nei primi quattro mesi del 2025 il biologico italiano ha registrato una crescita delle vendite del +4,4% a valore e del +2,6% a volume. Un segnale positivo per l’agricoltura bio: un metodo agricolo rigenerativo che rispetta i processi naturali del suolo, senza ricorrere a fertilizzanti e pesticidi chimici. Secondo lo studio realizzato dalla società di consulenza Nomisma, il trend favorevole riguarda anche altri mercati europei: +10% in Germania e +8% nel Regno Unito.
Gli italiani comprano poco Bio
Presentato lunedì 6 ottobre a Isola del Piano, nelle Marche, presso la Cooperativa agricola Gino Girolomoni, il report conferma una crescente attenzione verso i prodotti biologici, in particolare nel Nord Europa. L’Italia, pur essendo tra i leader produttivi mondiali con 2,5 milioni di ettari coltivati con metodo biologico (circa il 20% della superficie agricola nazionale) mostra ancora un divario sul fronte dei consumi: solo il 4% dei prodotti alimentari acquistati dagli italiani è bio. I dati del 2023 collocano il paese al decimo posto in Europa, dietro a Estonia e Paesi Bassi.
“C’è ancora un problema di visibilità e attrattività per il prodotto biologico: spesso non si trova sugli scaffali o non se ne conoscono le caratteristiche distintive. Sono queste le principali ragioni per cui molti italiani non lo acquistano”, ha spiegato Silvia Zucconi, responsabile market intelligence di Nomisma.
Ma il trend di mercato complessivo resta comunque positivo. Secondo i dati del MASAF, il Ministero dell'agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, i consumi interni e l’export del biologico in Italia superano i 10 miliardi di euro.
Il fondo per il biologico italiano
Eleonora Iacovoni, direttrice generale per la promozione della qualità agroalimentare del MASAF, ha ricordato alcune iniziative a sostegno dello sviluppo dell’acquacoltura biologica e l’adozione di un Piano nazionale delle sementi biologiche, redatto con il contributo del CREA, che prevede una serie di azioni tra cui il miglioramento genetico (bio-breeding) ovvero l’utilizzo di varietà genetiche che, senza il sussidio di sostanze chimiche costose e ambientalmente impattanti, sono in grado di adattarsi a un contesto sempre più instabile a causa dei cambiamenti climatici.
Dal 2026 sarà operativo un Fondo per lo sviluppo della produzione biologica, articolato in quattro linee di intervento: il 15% delle risorse è già stato destinato alla realizzazione del marchio biologico italiano; il 20% al Piano nazionale delle sementi biologiche; il 25% al finanziamento del Piano d’azione nazionale per la produzione biologica; il 40% a programmi di ricerca e innovazione. Tuttavia, non è ancora nota la somma che sarà messa a disposizione del Fondo.
La ripartizione delle risorse è stata al centro anche dell’intervento di Giorgio Canali, professore dell’Università Cattolica, che, richiamando la Politica agricola comune (PAC), ha messo in guardia dal rischio che il sostegno alle superfici biologiche “si traduca in una sorta di rendita per gli agricoltori che possiedono terreni a biologico ma non producono realmente prodotti biologici. Il biologico ha bisogno di più innovazione e ricerca, ma anche di una comunicazione più chiara. Oggi c’è ancora troppa confusione tra la certificazione biologica e altre certificazioni di sostenibilità”.
Gli esempi di cooperative virtuose
Protagoniste del convegno organizzato da Confcooperative FedagriPesca sono state le cooperative agricole, elogiate anche dal presidente della Commissione agricoltura della Camera dei deputati Mirco Carloni in quanto modelli aggregativi virtuosi. “Nelle Marche le imprese hanno dimensioni molto piccole: se non c’è aggregazione non possono stare sul mercato e la cooperazione riesce a dare in tal senso un vantaggio economico competitivo”, ha detto il deputato.
La cooperazione agricola è importante non solo per ragioni di mercato, ma anche perché genera altri benefici importanti a partire dalla difesa della vitalità delle aree interne. Lo diceva anche Gino Girolomoni, pioniere dell’agricoltura biologica in Italia, che nel 1977 fondò a Isola del Piano la Cooperativa Alce Nero, diventata dopo la sua morte nel 2012 “Cooperativa agricola Girolomoni”. Gino Girolomoni credeva che il metodo biologico potesse ridare dignità e valore alla terra e che l’esperienza della Cooperativa potesse rivitalizzare un territorio ormai pesantemente industrializzato. Oggi la Cooperativa Girolomoni conta oltre 400 aziende e vende prodotti biologici in tutto il mondo ed è una delle filiere agroalimentari bio più all’avanguardia d’Europa.
Anche la cooperativa inglese Triangle Wholefoods Collective Limited, che opera con il marchio Suma, ha fatto molta strada dalla sua fondazione nel 1977. Oggi è la più grande grossista indipendente di prodotti bio, vegani e vegetariani del Regno Unito ed è anche nota per essere la più grossa cooperativa di lavoratori con pari retribuzione in Europa.
“Tutti hanno lo stesso stipendio, dal boss che viene eletto democraticamente dai dipendenti fino al magazziniere”, dice a Materia Rinnovabile Rebecca Kinnard product developer di Suma, che negli anni ha sperimentato diversi lavori all’interno dell’azienda. “Imparare a fare cose diverse in modo flessibile aiuta a spezzare la noiosa monotonia lavorativa dei ruoli e ti fa sentire parte di qualcosa di più importante.”
Con il motto “Il capitale serve i lavoratori e non il contrario”, Suma assorbe i princìpi del modello agricolo di stampo marxista dimostrando competitività nel mercato agroalimentare: nel 2024 ha registrato un fatturato di 34 milioni di sterline e un profitto di quasi 1 milione. Suma pone al centro della sua politica aziendale anche la crisi climatica, investendo sul camion a biogas, riducendo i consumi di energia elettrica e riciclando gli scarti alimentari.
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