Il caldo torrido, i fiumi in secca e le piogge torrenziali che hanno segnato l’estate 2025 non hanno lasciato soltanto immagini di cronaca o danni visibili alle infrastrutture. Hanno scavato un solco nei conti economici dell’Europa che sarà difficile da colmare nei prossimi anni. Un conto che gli economisti hanno provato per la prima volta a calcolare con precisione: secondo un nuovo studio dell’Università di Mannheim e della Banca centrale europea, l’ondata di eventi estremi di questi mesi si tradurrà in perdite aggregate di produzione per 43 miliardi di euro già quest’anno e in un totale di 126 miliardi entro il 2029.

Gli autori spiegano che i costi reali delle condizioni meteorologiche estreme emergono lentamente, perché questi eventi incidono sulle vite e sui mezzi di sussistenza attraverso molti canali oltre all’impatto iniziale. È per questo che hanno costruito un modello capace di fornire stime tempestive di come caldo, siccità e alluvioni incidano sull’attività economica: uno strumento utile per i decisori pubblici, che spesso arrivano a valutazioni troppo tardive rispetto all’urgenza delle crisi.

Cosa misura lo studio

Il paper, dal titolo Dry-roasted NUTS: early estimates of the regional impact of 2025 extreme weather, combina i dati meteo di giugno-agosto 2025 con coefficienti elaborati in ricerche precedenti pubblicate su European Economic Review. In pratica, incrocia temperature, precipitazioni e siccità con gli effetti economici osservati in passato in condizioni simili, così da stimare per ogni regione europea quanto l’estate estrema di quest’anno abbia ridotto produzione e reddito.

L’idea di fondo è semplice: ogni evento estremo lascia un segno diverso. Le ondate di calore frenano la produttività nei lavori che dipendono dalla presenza fisica delle persone, dall’edilizia all’ospitalità. La siccità toglie ossigeno all’agricoltura e riduce i raccolti. Le inondazioni, oltre ai danni diretti a case e infrastrutture, si traducono in ritardi nelle forniture, fabbriche ferme, filiere interrotte.

Un’Europa vulnerabile

Il risultato è chiaro: il costo stimato per l’Europa è di 126 miliardi in cinque anni, pari a circa lo 0,8% della ricchezza prodotta in un anno. Per economie più piccole, come Malta o Cipro, la perdita percentuale è ancora più pesante. Ma anche per i grandi paesi il messaggio è netto: senza strategie di adattamento, il cambiamento climatico rischia di trasformarsi in un freno strutturale alla crescita.

Francesco Bosello, docente all’Università Statale di Milano e ricercatore del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC), legge così il dato: “Lo studio conferma conoscenza e stime da lungo tempo note alla comunità scientifica. È una dimostrazione della solidità della ricerca sul cambiamento climatico, anche in relazione alle sue implicazioni socioeconomiche”.

Due aspetti, sottolinea Bosello, emergono con costanza: “Anche le aree sviluppate del pianeta e collocate alle medie latitudini come l’Europa sono già soggette a elevate perdite economiche” e l’area mediterranea si rivela un hotspot per costi e vulnerabilità. Non a caso il paper segnala che i paesi dell’Europa meridionale − tra cui Spagna, Italia, Portogallo, Grecia e Francia meridionale − sono più esposti a ondate di calore e siccità. Tra questi, l’Italia è uno degli epicentri della crisi.

Italia, hotspot climatico d’Europa

Le perdite stimate equivalgono a oltre mezzo punto di PIL già nel 2025 e quasi al doppio entro il 2029, con un danno complessivo che tocca gli 11,9 miliardi nel breve periodo e sale a 34,2 miliardi in cinque anni. In termini relativi, è un impatto superiore a quello francese nello stesso arco di tempo (10,1 miliardi nel 2025 e 33,9 nel 2029) e secondo solo alla Spagna, altro grande hotspot climatico del Mediterraneo.

A incidere non è soltanto la posizione geografica, con ondate di calore e siccità sempre più frequenti nell’Europa meridionale, ma anche la struttura dell’economia italiana. L’agricoltura, particolarmente esposta alla scarsità d’acqua e alle anomalie delle stagioni, rappresenta uno dei settori più vulnerabili. Il turismo estivo, che costituisce una quota rilevante del PIL nazionale, soffre direttamente sia il caldo eccessivo che la perdita di attrattività delle aree più colpite. A ciò si aggiungono i danni indiretti su edilizia, logistica e infrastrutture, che si traducono in una riduzione della produttività e in interruzioni delle catene di fornitura.

Politiche in cerca di rotta

Davanti a questi numeri, la questione non è più se il cambiamento climatico pesi sull’economia, ma quali politiche potrebbero ridurne l’impatto. Per Bosello, il tema riguarda direttamente le priorità economiche dell’UE e il cambio di rotta avviato con l’intensificarsi dei conflitti globali. “Il Green Deal, nella sua formulazione iniziale, proponeva sicuramente una delle più grandi visioni dell’Europa moderna”, osserva. Puntava sulla sostenibilità come motore di crescita, con fondi massicci e obiettivi climatici centrali. “Ora le priorità sembrano essere diverse − difesa, sicurezza, indipendenza energetica − e fondi e politiche vengono reindirizzati verso altre finalità. Senza capire però che la transizione verde produce benefici anche in campi non ambientali”.

Lo studio richiama l’attenzione su un nodo collegato: i costi reali del cambiamento climatico sono spesso sottostimati. Le statistiche assicurative fotografano solo i danni materiali, ma restano fuori riduzioni di produttività, interruzioni delle filiere e conseguenze sociali. Considerare soltanto la componente visibile rischia quindi di influenzare le scelte politiche, facendo apparire la transizione verde come un costo anziché come un investimento. Gli autori sottolineano invece come lo sviluppo delle rinnovabili rafforzi la sicurezza energetica, riduca la dipendenza da fornitori inaffidabili e migliori la competitività, rendendo le economie europee meno esposte a dazi e tariffe.

Le cifre dello studio, tuttavia, sono probabilmente conservative. Restano fuori incendi, grandinate, tempeste di vento e soprattutto gli effetti composti, quando caldo e siccità colpiscono contemporaneamente. In altre parole, i numeri stimati rischiano di essere solo la punta dell’iceberg. Bosello conferma: “I costi del cambiamento climatico sono destinati a salire. Anche senza inserire ulteriori aree di impatto, il semplice deteriorarsi del contesto climatico e l’aumentare delle temperature determinerà un peggioramento della situazione”. Secondo studi del CMCC i potenziali costi per l’Italia potrebbero raggiungere fra i 28 e i 61 miliardi a metà secolo in assenza di mitigazione.

L’urgenza dell’adattamento

La conclusione, per gli autori dello studio, è inequivocabile: le condizioni meteorologiche estreme non sono più una minaccia lontana, ma stanno già condizionando lo sviluppo economico dell’Europa. Adattarsi costa, ma non farlo costa di più.

“Al contempo l’UE deve sostenere sempre di più l’adattamento, fornendo informazioni, conoscenza e opportunità di finanziamento alle azioni degli stati e soprattutto a livello locale”, spiega Bosello. È sui territori e nei centri urbani che si gioca gran parte della sfida. Misure come protezione dal calore in città, gestione delle acque e infrastrutture resilienti sono ormai parte integrante delle politiche di crescita. Non più un rischio ipotetico, ma un freno già visibile allo sviluppo europeo.

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In copertina: Lione, immagine Envato