Immaginiamo di stendere un tappeto di cemento e asfalto sul territorio italiano. Ogni giorno ne srotoliamo 230.000 metri quadri. Ogni secondo, quasi tre metri. Senza fermarsi mai: di notte, nei weekend, d’estate, d’inverno. In un anno avremo ricoperto una superficie grande quanto Pavia. Benvenuti nel consumo di suolo italiano 2024: non è un’ipotesi distopica, è la fotografia che ci restituisce il Rapporto ISPRA presentato oggi, venerdì 24 ottobre: Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2025.
Quest’anno la velocità di consumo di suolo è anche aumentata del 15,6% rispetto al 2023, raggiungendo 83,7 chilometri quadrati di territorio trasformato in superfici artificiali. Il valore più alto degli ultimi dodici anni.
Il dettagliatissimo rapporto non lascia spazio a interpretazioni: stiamo perdendo la partita. E la posta in gioco non è estetica né ideologica. Si tratta di biodiversità, sicurezza alimentare, resilienza climatica, sopravvivenza. Perché il suolo non è semplice terra: è un ecosistema complesso, un capitale naturale che una volta compromesso difficilmente si recupera.
Il paradosso italiano: più cemento, meno persone
La vera beffa emerge quando si incrociano i dati del consumo di suolo con quelli demografici. Mentre la popolazione italiana cala – la flessione demografica è ormai strutturale – le superfici artificiali crescono. Una relazione perversa che svela come urbanizzazione e infrastrutturazione abbiano ormai tagliato ogni legame razionale con i bisogni reali delle comunità. Il risultato? Il suolo consumato pro capite è schizzato da 347 metri quadri per abitante del 2006 a 365,8 del 2024. Quasi 19 metri quadri in più a testa, di cui 18,4 aggiunti negli ultimi sei anni soltanto. Un’accelerazione vertiginosa che fa apparire lento il periodo 2006-2018, quando l’aumento era stato di soli 6,5 metri quadri per abitante.
Oggi ogni italiano si porta sulle spalle – volente o nolente – una quota di territorio cementificato che cresce anche mentre la sua comunità si restringe. È il paradosso di un paese che continua a espandersi fisicamente mentre si contrae demograficamente. E che lascia dietro di sé una scia di aree dismesse, capannoni vuoti, periferie abbandonate, mentre continua a divorare suolo vergine ai margini.
La geografia della perdita
Le regioni che guidano questa classifica dell’artificializzazione sono sempre le stesse, ma con numeri sempre più impressionanti. La prima della classe, se così possiamo dire, in questa classifica al contrario, è l’Emilia-Romagna, che nel 2024 ha perso 1.013 ettari di suolo, seguita dalla solita Lombardia con 834, mentre terza è la Puglia con 818. Seguono Sicilia (799) e Lazio (785). Solo Liguria (28 ettari) e Molise (49 ettari) hanno contenuto l’emorragia sotto i 50 ettari.
Paolo Pileri è professore di pianificazione territoriale ambientale al Politecnico di Milano, urbanista, tra i più importanti divulgatori scientifici sul suolo in Italia e non solo, è nel comitato scientifico di ISPRA, per cui ha vidimato proprio i dati del rapporto, e ha da poco pubblicato Dalla parte del suolo. L’ecosistema invisibile per Laterza. A Materia Rinnovabile sottolinea una notizia su tutte le altre: “Il primato dell’Emilia-Romagna ci racconta che i nodi vengono al pettine, ovvero che quella che certi presidenti di regione sostenevano essere la miglior legge contro il consumo di suolo è invece un colabrodo. C’è ancora consumo in aree alluvionabili, in aree protette, in aree a pericolosità di frana. Ci rendiamo conto? Consumiamo suolo dove andremo a piangere morti e avremo una valangata di costi pubblici.”
Continuando ad analizzare la classifica, la provincia di Monza e Brianza si conferma il caso più estremo: quasi il 41% del territorio provinciale è ormai artificiale, con un ulteriore aumento di 47 ettari negli ultimi dodici mesi. È un paesaggio lunare, dove il suolo naturale è diventato l’eccezione. Ma i record negativi del 2024 spettano alle province di Viterbo (424 ettari), Sassari (245 ettari) e Lecce (239 ettari).
A livello comunale, la cartografia del disastro è ancora più granulare: dal 2006 al 2024 il 98% dei comuni italiani – 7.739 su 7.896 – ha visto aumentare le proprie superfici consumate. In 4.259 comuni l’incremento è stato di almeno 5 ettari, in 2.970 superiore a 10 ettari. I casi più eclatanti dell’ultimo anno? Tarquinia con oltre 150 ettari persi, Uta con 148, Montalto di Castro con 140. Tre località accomunate da un dettaglio non secondario: la proliferazione massiccia di impianti fotovoltaici a terra.
L’energia del sole che divora la terra
Ed ecco emergere uno dei nodi più controversi dell’attuale transizione energetica italiana. I pannelli fotovoltaici a terra nel 2024 hanno occupato 1.702 ettari di territorio, quadruplicando i 420 ettari del 2023 e moltiplicando per sei i 263 del 2022. L’80% di questi impianti è stato realizzato su superfici agricole. È il cortocircuito della sostenibilità: per combattere la crisi climatica consumiamo suolo, riducendo proprio quella capacità di assorbimento del carbonio, regolazione idrica e produzione alimentare che dovremmo proteggere per affrontare gli shock futuri.
Escludendo gli impianti fotovoltaici, i comuni con la maggiore crescita di superfici artificiali nel 2024 sono stati Ravenna (84 ettari), Venezia (62), Sassari (60) e Roma (57 ettari, comunque in rallentamento rispetto ai 71 del 2023). Ma è tutta la geografia del consumo a raccontare una storia di scelte sbagliate ripetute: si continua a costruire lungo le coste (dove la densità di artificializzazione è massima nella fascia entro un chilometro dal mare), nelle pianure, nelle aree periurbane, spesso proprio dove i rischi idrogeologici sono più elevati.
Tra gli aspetti più inquietanti c’è il fatto che si persiste nel consumare suolo esattamente dove non si dovrebbe. Nelle aree a pericolosità idraulica media sono stati consumati nell’ultimo anno 1.303 ettari, in aumento rispetto alle annualità precedenti. Nelle zone a pericolosità di frana altri 608 ettari sono stati artificializzati, dopo il rallentamento del 2023. È come se il dissesto idrogeologico – che colpisce ormai il 94,5% dei comuni italiani secondo l’ultimo rapporto ISPRA – non ci insegnasse nulla.
Anche nelle aree teoricamente protette il consumo avanza, seppure più lentamente. I Parchi nazionali e regionali hanno perso complessivamente circa 60 ettari nell’ultimo anno, le aree Natura 2000 altri 193 ettari (+14% rispetto al 2023), le zone vincolate per tutela paesaggistica oltre 1.520 ettari (+9%). Sono numeri più contenuti rispetto alla media nazionale, ma il fatto stesso che esistano è un sintomo dell’inadeguatezza delle tutele vigenti. “Nei parchi poi si potranno mettere pannelli fotovoltaici se nel frattempo le regole del parco non si sono organizzate per vietarli”, spiega Pileri. Danno, beffa, e di nuovo danno.
Cosa stiamo perdendo (oltre alla vista)
Quando parliamo di consumo di suolo non stiamo descrivendo solo un problema estetico o sentimentale. Stiamo quantificando la perdita di servizi ecosistemici vitali. Quel suolo che scompare sotto il cemento non può più assorbire acqua piovana, contribuendo alle alluvioni che ci colpiscono con crescente frequenza. Non può più stoccare carbonio, aggravando la crisi climatica. Non può più produrre cibo, minacciando la nostra sicurezza alimentare. Non può più ospitare biodiversità, impoverendo gli ecosistemi.
I costi economici di questa perdita sono stati calcolati tra un minimo di 8,66 e un massimo di 10,59 miliardi di euro persi ogni anno a causa del consumo di suolo avvenuto tra il 2006 e il 2024. Ma è una stima conservativa, che non tiene conto di molti costi indiretti e di lungo periodo. L’impatto sulla frammentazione ecologica riguarda ormai due terzi del territorio nazionale, con oltre il 42% che presenta livelli di frammentazione alti o molto alti. Significa habitat spezzettati, corridoi ecologici interrotti, specie che non riescono più a spostarsi, riprodursi, sopravvivere.
L’isola di calore che brucia le città
E poi c’è l’effetto sul microclima urbano. Le analisi sull’isola di calore urbana mostrano differenze di temperatura tra aree urbane e rurali che superano stabilmente i 10°C, con picchi di +11,3°C nelle regioni settentrionali. Non è un dato accademico: significa notti torride che diventano letali per anziani e fragili, consumi energetici che esplodono per la climatizzazione, qualità della vita che crolla.
La vegetazione urbana emerge come elemento cruciale: nei quartieri dove la copertura arborea supera il 50%, le temperature sono fino a 2,2°C più basse. Ma mentre questa evidenza scientifica si accumula continuiamo a sigillare suolo, abbattere alberi, sostituire superfici permeabili con asfalto e cemento.
La nuova frontiera: logistica e data center
Tra le cause del consumo di suolo, alcune tendenze recenti meritano attenzione. Le aree destinate alla logistica sono cresciute di 432 ettari nell’ultimo anno, concentrate soprattutto in Emilia-Romagna (+107 ettari), Piemonte (+74) e Lombardia (+69). È l’effetto dell’e-commerce, della riorganizzazione delle filiere produttive, della crescente domanda di magazzini sempre più grandi e periferici.
Ma la vera novità del 2024 è l’irruzione dei data center. Spinti dalla crescente domanda di infrastrutture digitali e servizi cloud, questi impianti hanno occupato oltre 37 ettari di superficie, prevalentemente nelle aree settentrionali del paese. È una dinamica territoriale completamente nuova, figlia della trasformazione digitale, che si aggiunge alle tradizionali forme di consumo di suolo senza che esista ancora una riflessione strategica su come governarla.
I cantieri: un consumo temporaneo che diventa permanente
Un dato spesso sottovalutato: i cantieri rappresentano il 56% del consumo di suolo annuale, con 4.678 ettari trasformati nel 2024. Sono aree tecnicamente in transizione, classificate come consumo reversibile. Ma la storia ci insegna che gran parte di queste superfici sarà convertita, negli anni successivi, in coperture permanenti: edifici, strade, piazzali. Solo una minoranza sarà ripristinata. E infatti il ripristino – il passaggio da suolo consumato a suolo naturale – rimane drammaticamente insufficiente: poco più di 5 chilometri quadrati nell’ultimo anno, a fronte di 83,7 consumati. Il consumo netto arriva così a 78,5 chilometri quadrati, il valore più alto degli ultimi dodici anni. Significa che per ogni metro quadro liberato ne abbiamo sigillati altri sedici.
L’impermeabilizzazione: il danno definitivo
Tra le diverse forme di consumo, quella più grave è l’impermeabilizzazione: il suolo viene sigillato da superfici che non permettono più alcuno scambio con l’atmosfera e il sottosuolo. Nel 2024 sono stati impermeabilizzati 12,9 chilometri quadrati di consumo permanente nuovo, ma a questi si devono aggiungere altri 11,6 chilometri quadrati passati da consumo reversibile (rilevato nel 2023) a permanente. In totale, 24,5 chilometri quadrati ulteriormente sigillati, per sempre.
Edifici (+623 ettari), aree estrattive (+436 ettari), infrastrutture (+351 ettari), piazzali, cortili, campi sportivi e discariche (+581 ettari): sono queste le voci che compongono il mosaico dell’artificializzazione permanente. Escluse le aree di cantiere, il consumo permanente rappresenta il 35% del totale, con una prevalenza netta di edifici, piazzali pavimentati e strade.
La sfida europea che l’Italia rischia di perdere
L’Europa ha alzato l’asticella. La Legge sul ripristino della natura impone l’azzeramento della perdita netta di aree verdi urbane entro il 2030 e il loro incremento dal 2031. La nuova Direttiva su monitoraggio e resilienza del suolo, in attesa di adozione finale, introduce un sistema di sorveglianza europeo che prende spunto proprio dal modello italiano di ISPRA, promuovendo la mitigazione del consumo con particolare attenzione all’impermeabilizzazione.
L’azzeramento del consumo netto di suolo è considerato necessario anche per raggiungere i target dell’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile, del Piano nazionale di ripresa e resilienza e del Piano per la transizione ecologica. È ritenuto una misura chiave per l’adattamento agli eventi estremi. Ma con un consumo che accelera invece di frenare, con ripristini che restano simbolici, con una governance frammentata tra livelli istituzionali che faticano a coordinarsi, l’Italia rischia di arrivare al 2030 ancora più lontana dall’obiettivo. E non si tratta solo di pagare una multa europea: si tratta di compromettere ulteriormente la nostra capacità di affrontare crisi climatica, dissesto idrogeologico, perdita di biodiversità.
Invertire la rotta: serve un cambio di paradigma
Le conclusioni del rapporto ISPRA sono nette: il consumo di suolo in Italia è un fenomeno in accelerazione che richiede risposte urgenti e coordinate. La sfida è duplice: contenere l’espansione urbana e infrastrutturale da un lato, promuovere il ripristino ecologico e la resilienza territoriale dall’altro. Arrestare il consumo di suolo dovrebbe avvenire sia minimizzando gli interventi di artificializzazione, sia aumentando il ripristino naturale delle aree più compromesse, in particolare ambiti urbani e coste. Significherebbe fornire un contributo fondamentale per affrontare cambiamenti climatici, dissesto idrogeologico, inquinamento, degrado del territorio e del paesaggio. Ma serve un cambio culturale prima ancora che normativo.
Bisogna smettere di vedere il suolo come una risorsa infinita da sfruttare e iniziare a considerarlo per quello che è: un ecosistema fragile, limitato, insostituibile. Un bene comune da preservare per le generazioni future, non da consumare per profitti immediati. Le nuove normative europee offrono strumenti e obiettivi chiari. Ma senza il coinvolgimento attivo di istituzioni, cittadini e imprese, senza una reale volontà politica di invertire la rotta, continueremo a perdere 2,7 metri quadri al secondo. E quando ci accorgeremo che il suolo è finito, sarà troppo tardi per recuperarlo. Perché il suolo – a differenza del cemento che lo ricopre – non si può ricostruire. Si può solo consumare.
In copertina: foto di Ivan Bandura, Unsplash
