Ivan Faiella coordina il Nucleo cambiamenti climatici e sostenibilità di Banca d'Italia. I suoi numeri fanno impressione: mille miliardi di euro di patrimonio immobiliare italiano esposto al rischio alluvione, tre miliardi di perdite annue attese. Ma dietro le cifre c'è una realtà ancora più complessa: quando una casa va sott'acqua, non viene colpita solo la famiglia che ci vive, ma potenzialmente anche il sistema bancario. L’abbiamo intervistato per capirne di più.
Faiella, come siete arrivati a quantificare questo rischio da mille miliardi?
Dei ricercatori della Banca d’Italia hanno sovrapposto le mappe ISPRA sul rischio alluvionale con i dati del censimento che ci dicono quante abitazioni e quanti metri quadri sono allocati in ogni zona e, con le quotazioni dell’Osservatorio del mercato immobiliare, hanno dato un valore a questi immobili. Il risultato è che nel 2020 circa un quarto del patrimonio abitativo italiano − mille miliardi di euro − era esposto al rischio alluvione, con una perdita annua attesa di 3 miliardi. E questo considerando solo le famiglie e solo i rischi alluvionali, escludendo frane e altri eventi estremi e non considerando le imprese.
Perché la Banca centrale dovrebbe occuparsene?
Perché una delle esposizioni principali del sistema bancario sono proprio i crediti fondiari e i mutui. Quando arriva il danno, il primo impatto è sul benessere della famiglia: chiaramente al primo posto ci sono le vite umane, poi c’è un impatto economico legato alla perdita di valore dell’immobile e delle ipoteche (nel caso le abitazioni colpite siano state date in garanzia). La famiglia può ritrovarsi a dover pagare un affitto per un’altra casa e continuare a pagare la rata del mutuo sulla casa alluvionata. Se non riesce a pagare − ed è possibile che ciò accada − il credito rischia di andare in sofferenza, la banca registra una perdita e inoltre l’immobile preso in garanzia ha perso valore. Se questi eventi si ripetono su più parti del territorio, può diventare un problema per l’intero sistema.
Venezia con il MOSE ha dimostrato che la protezione si riflette sui prezzi immobiliari?
Esatto. Il Mose limita l’allagamento delle zone più esposte e questo effetto è stato "prezzato" dal mercato secondo un’analisi di nostri colleghi: le case protette hanno più valore delle altre. È lo stesso meccanismo che vediamo con l’efficienza energetica: le case più efficienti hanno un maggior valore. Oggi si possono misurare gli effetti concreti dei cambiamenti climatici sul mercato immobiliare.
Il sistema bancario potrebbe smettere di erogare mutui nelle zone a rischio?
Non necessariamente si fermerà l’erogazione, ma il sistema deve gestire questo rischio. La banca potrebbe condizionare l’erogazione del mutuo alla sottoscrizione di una assicurazione. Da quest’anno quella contro le catastrofi naturali è obbligatoria per le imprese, e col tempo credo che lo sarà anche per chi vive in zone a rischio. Ma non deve essere vista come una tassa sulla casa.
Però sarà difficile non vederla così, visto che è un costo che ricadrà sui proprietari o aspiranti tali. E se le assicurazioni faranno come a Miami, rifiutandosi di assicurare le case a rischio?
Non è una tassa ma un percorso necessario che ovviamente non può ricadere interamente sulle spalle del privato. Per questo auspichiamo un coordinamento con il settore pubblico. Se i fenomeni climatici aumentano di frequenza e di intensità, anche più delle aspettative, e diventano anche più diffusi geograficamente, le finanze pubbliche non potranno sempre compensare questi danni e per le assicurazioni sarebbe più difficile vendere quel rischio ad altri investitori finanziari. Ma chi lo compra quel rischio alla fine?
Potrebbe essere utile un ragionamento o un intervento a livello europeo?
L’Europa presenta al suo interno situazioni differenti e forse si potrebbe ragionare per macroaree: l'Italia, soprattutto il Sud e le isole, è accomunata a Spagna, Portogallo e Grecia per certi rischi (ad esempio incendi e stress idrico), mentre il Nord Italia insieme alla Francia e al Nord Europa è più esposto ad altri (ad esempio le alluvioni). Un intervento di condivisione pubblico-privato sarebbe utile e gli strumenti non mancano: un’ipotesi potrebbe essere che fino a una certa cifra paga l’assicurazione, poi interviene lo stato. L’obiettivo è aumentare l’offerta assicurativa e rendere i premi abbordabili. Se il loro ammontare viene limitato per legge, il rischio è che accada quanto avvenuto in California, dove le case in alcune zone non sono coperte da offerte assicurative per la decisione dello stato di mettere dei tetti ai prezzi delle polizze. Serve un intervento di sistema che coordini banche e assicurazioni. Inoltre si potrebbero usare strumenti finanziari innovativi per sovvenzionare le opere di adattamento: penso a BTP green, che potrebbero essere emessi non solo per interventi di riduzione dei gas serra ma anche per finanziare opere di mitigazione degli impatti dei cambiamenti climatici.
Ma il problema non è anche il troppo cemento?
Certo, il territorio italiano, estremamente ricco dal punto di vista naturalistico, è molto esposto ai rischi naturali: tali rischi sono però anche esacerbati da dove vengono collocati esseri umani, abitazioni e infrastrutture. Pensi alle costruzioni in zone soggette a bradisismo o ai problemi dei regimi delle acque nei dintorni di alcune città, come Genova e Catania, dove l’eccessiva impermeabilizzazione ha ridotto la capacità dei terreni naturalizzati di contenere e ridurre i volumi di pioggia.
Cosa si può fare?
Ci vorrebbe anche qui un’azione di sistema per restituire terreno alla natura. Non per essere "ambientalisti", ma perché un bosco riduce concretamente il rischio idrogeologico e ha molti altri benefici (ad esempio contenendo le isole di calore): sono le cosiddette soluzioni basate sulla natura o infrastrutture verdi. Alcune regioni lo stanno facendo, ad esempio creando bacini di contenimento naturali: al contrario degli argini artificiali, queste zone aiutano a ridurre l’intensità degli impatti alluvionali. Bisogna rinaturalizzare il territorio. Questo era uno degli obiettivi della contestata Nature Restoration Law. La resilienza dei nostri territori è un termine abusato, ma andrebbe perseguita in modo sistematico.
Perché le assicurazioni hanno tardato tanto a offrire coperture per i rischi catastrofali?
C’è una bassa cultura assicurativa in Italia, non c’è richiesta. Il rischio deve essere in primo luogo percepito dalle persone: dovrebbero capire dove comprano casa e cosa fare per proteggersi. Poi deve esserci la capacità di sottoscrivere assicurazioni a prezzi accessibili. Le politiche pubbliche potrebbero aiutare con defiscalizzazioni, meccanismi di compartecipazione al danno, incentivi alle imprese assicurative.
Dal 2015-16 Banca d'Italia è stata pioniera su questi temi. Com’è cambiata la sensibilità?
Nel sistema finanziario la sensibilità è alta, ormai tutti sappiamo di cosa stiamo parlando. Il problema è capire quanto nel settore pubblico siano consapevoli, perché i dati ci sono − li forniscono ISPRA, IRPI-CNR, CMCC − ma manca un coordinamento centrale. Servirebbe un comitato indipendente di alto livello per il cambiamento climatico, che coordini le attività tra i tanti attori pubblici, anche per gestire la parcellizzazione delle competenze tra governo ed enti locali.
Qual è il vero problema della comunicazione?
L’ottimo lavoro fatto da ISPRA nell’ultimo rapporto appena presentato, e nell’evento organizzato per comunicarlo deve essere d’esempio. Tra poco toccherà fare il match con il rapporto sul consumo di suolo che esce in autunno: sono dati importantissimi e i messaggi di questi rapporti andrebbero coordinati tra loro. Sarebbe utile una divulgazione chiara (alla "Alberto Angela" per intenderci) in grado di convogliare i dati essenziali mettendo insieme tutte le diverse informazioni per renderle chiare e comprensibili a un pubblico generalista. I dati ci sono, e il data base ISPRA IdroGEO, la piattaforma pubblica e open data per la consultazione delle mappe e dei dati aggiornati sul dissesto, è molto consultata anche da parte di agenzie immobiliari, che cercano informazioni sullo stato idrogeologico della zona in cui insiste l’immobile, ma vanno comunicati meglio.
In sintesi: cosa serve davvero?
Tre cose. Primo: smettere di costruire dove non si deve e iniziare a rinaturalizzare. Secondo: un sistema assicurativo che funzioni, con un’offerta stimolata dal supporto pubblico se necessario, e una domanda che nasca da una maggiore sensibilità dei singoli sui rischi che corrono e sull’opportunità di proteggersi. Terzo: coordinamento istituzionale, per evitare che le diverse istituzioni abbiano strategie conflittuali. L’urgenza dei cambiamenti climatici non è compatibile con un eccesso di burocrazia.
In copertina: una foto dell’alluvione in Emilia-Romagna nel 2023, Dati Bendo © European Union, 2023