Il 3 ottobre, nei giorni in cui milioni di persone erano in strada per sostenere la fine della guerra a Gaza e l’azione della Global Sumud Flotilla, il governo faceva passare il disegno di legge per la delega al governo sul nucleare “sostenibile”. Zero attenzione mediatica e dell’opinione pubblica.
Tra le misure previste e già largamente annunciate, c’è lo stanziamento di 7,5 milioni di euro tra il 2025 e 2026 per “promuovere” il ritorno al nucleare entro il 2035. In pratica gli unici soldi pubblici previsti per ora per il “rinascimento nucleare”.
Ricordo che per “informare” sull’applicazione delle misure sull’efficienza energetica in anni passati si sono stanziati 3 milioni di euro tra il 2021 e il 2030 e non risultano campagne significative per le energie rinnovabili, anzi. L’ostilità di parte dell’opinione pubblica verso eolico e anche solare è il frutto di una costante propaganda contro le energie rinnovabili in Italia, spesso basata su dati farlocchi, come il numero di campi da calcio necessari a coprire il paese con pale eoliche o pannelli fotovoltaici, o l’impossibilità di andare oltre una produzione di elettricità in percentuali da prefisso telefonico, nonostante i fatti ci dicano che già oggi la produzione di elettricità da rinnovabili ha superato in Italia nel 2025 quella prodotta da combustibili fossili.
Insomma, anche l’improvvisa rinascita del nucleare nel possibile mix energetico italiano è stata resa più facile da anni di eco-scetticismo di una parte importante del mondo politico, non solo rispetto ai cambiamenti climatici e ai loro effetti, ma anche rispetto alla possibilità che energie rinnovabili ed efficienza potessero davvero rappresentare un’alternativa sufficiente a petrolio e gas.
Scetticismo favorito naturalmente dall’influenza di imprese come ENI e SNAM, la cui sopravvivenza e i cui guadagni dipendono direttamente dalla possibilità di rallentare al massimo l’uscita dai fossili e in particolare dal gas: non è un caso che le grandi compagnie petrolifere e del gas parlino di transizione verde, ma nei fatti possiedano meno dell’1,5% della capacità mondiale di energie rinnovabili. Lo rivela uno studio di Antonio Bontempi e Marcelo Llavina dell’Università Autonoma di Barcellona, che ha analizzato oltre 53.000 impianti in tutto il mondo. Le 250 maggiori aziende del settore, responsabili dell’88% della produzione globale di idrocarburi, producono con le rinnovabili appena lo 0,13% della loro energia totale. E più della metà di questa quota deriva da acquisizioni, non da nuovi progetti sviluppati da loro.
Tanto per rimanere in Italia, per ogni euro investito in Plenitude – la sua divisione a basse emissioni di carbonio − nel 2022, ENI ha investito più di 15 euro in petrolio e gas. Tenendo conto che la divisione Plenitude di ENI comprende attività legate alle energie non rinnovabili, come la commercializzazione e la vendita al dettaglio di gas, che sono ancora le sue attività principali, per ogni euro investito nei combustibili fossili, meno di sette centesimi sono stati investiti in energie sostenibili. Lo studio promuove regole di trasparenza più severe, per queste imprese che sono dei veri propri “habitué” del greenwashing. ENI fu infatti già multata per 5 milioni di euro dall’Antitrust nel 2020 perché aveva spacciato il proprio carburante diesel come “green”. Quindi, pubblicità verdi che inondano a suon di milioni le TV degli italiani sono poco più che piccoli dettagli di attività che restano fortemente legate al fossile, e così intendono rimanere.
In Italia, peraltro, la grande spinta al nucleare, definito “nuovo” e “pulito” ma in realtà senza variazioni particolari dal punto di vista tecnologico rispetto agli attuali impianti, pare proprio funzionale ad andare avanti piano (quasi indietro) con rinnovabili ed efficienza, e mantenere la dipendenza dal gas, ora sempre più LNG.
La svolta è sostenuta dai campioni nazionali partecipati dallo stato, che spingono il governo alla svolta nucleare ma − guarda un po’ − non investono molto direttamente. Come ci spiega Pippo Onufrio di Greenpeace, ENI ha siglato una promessa d'acquisto di energia da fusione da 1 miliardo di dollari con Commonwealth Fusion Systems, ma che questa energia verrà mai prodotta è tutto da dimostrare. ENEL partecipa alla “ricerca” sul nucleare “avanzato” che da decenni non avanza granché.
Insomma non hanno piani di grandi investimenti, ma sono pronti ad approfittare di eventuali sussidi europei e nazionali e hanno tutto l’interesse a fomentare la narrativa governativa secondo la quale bisogna continuare con il gas in attesa del “nucleare pulito”, perché solo le rinnovabili non bastano. La chimera del nucleare serve perciò a salvaguardare lo status quo: se infatti davvero elettrificazione spinta, energie rinnovabili ed efficienza energetica divenissero dominanti nel modello energetico italiano, come sarebbe perfettamente possibile e auspicabile, questi importanti e influenti operatori vedrebbero diminuire influenza e guadagni.
L’energia nucleare è costosissima, e anche in Francia, celebrata a casa nostra come paese saggio e preveggente per la sua scelta nuclearista, i costi astronomici sono nodi che stanno arrivando al pettine. Flamanville, l’ultima centrale completata nel 2024 e ancora non completamente operativa, è costata al contribuente francese 24 miliardi di euro (più o meno equivalente al buco nella sanità pubblica) e la Corte dei conti ha già emesso un altro serio monito a EDF (di proprietà pubblica) e alla sua intenzione di affrontare i 460 miliardi di euro di investimenti che pensa di fare nei prossimi anni.
Al momento la nostra situazione di bilancio non è proprio rosea, non si vedono all’orizzonte investimenti privati, per costruire nuove centrali ci vogliono più o meno tra i dieci e i quindici anni, non funziona nessun Small Modular Reactor nemmeno a livello di prototipo in nessun paese occidentale, la tecnologia non ha risolto il problema delle scorie né quello del consumo di acqua né tantomeno il rischio che qualche drone vagabondo venga sganciato sulle centrali… non si capisce quindi davvero come si potrà nel giro di pochi anni contare su energia nucleare “Made in Italy” addirittura per “una quota tra l’11% e il 22% del totale dell’energia richiesta al 2050” e “a un costo stimato di almeno 17 miliardi di euro inferiore al costo dello scenario senza nucleare”, affermazione, quest’ultima, del tutto indimostrata. Siamo di fronte perciò a scenari veramente fantasiosi.
Nonostante questo, purtroppo, la politica va avanti imperterrita a forza di mozioni parlamentari, leggi delega, propaganda pagata a suon di milioni; non è in grado di resistere a questa forte pressione, un po’per ragioni ideologiche un po’ per una sorta di maschia diffidenza verso un sistema energetico non basato su grossi attori centralizzati e proprietari dell’interruttore, ma su soggetti per loro natura diffusi sul territorio, un modello decentrato che implica una scelta consapevole e anche una certa conoscenza da parte dell’utente. Non ridete: questo aspetto − chiamiamolo “culturale” − è davvero importante in Italia soprattutto quando spinto da lobby fossili, media e talk-show popolati da personaggi non proprio competenti in materia ma molto impegnati a smantellare l’ecologismo “ideologico”.
Si pone in tale logica anche l’altra decisione annunciata dal governo in questi giorni, e cioè il rinvio della chiusura definitiva delle centrali a carbone. Confermata dal Ministro Pichetto Fratin a un evento di Elettricità Futura il 7 ottobre e giustificata da ragioni “geopolitiche”, il rinvio della chiusura definitiva di due centrali a carbone ENEL a Civitavecchia e Brindisi, non ha alcuna base tecnica né climatica, ma appare come un favore a ENEL, che riceverà un compenso per mantenere aperte due centrali spente e da riaccendere solo in caso di “emergenza” e, soprattutto, non dovrà avviare la bonifica prevista dal piano di dismissione che doveva essere operativo quest’anno.
Anche perché Terna ha confermato nella stessa occasione che per lei le centrali si possono chiudere, dal punto di vista dell’adeguatezza della rete, ma si è anche detta non competente a decidere, dato che le motivazioni date dal governo sono di “sicurezza energetica”, quindi politiche. Tutto questo conferma la volontà di rallentare la transizione verso le rinnovabili, anche considerando l’inazione amministrativa sul permitting e non solo sulle rinnovabili, (1.000 giorni in media per una valutazione di impatto ambientale e 1.200 per il Permesso unico integrato, come denuncia Elettricità Futura). Ancora una volta il problema è che si perde tempo e si sottraggono preziose risorse che dovrebbero essere investite per accelerare su rinnovabili, batterie, efficienza e aumentare competenze e nuovi lavori.
Eppure non c’è storia: da qualsiasi parte la si prenda, rinnovabili, accumuli ed efficienza sono già oggi più rapidi da istallare, più sicuri per persone e ambiente, più efficaci nella riduzione delle emissioni e sempre meno cari, pur se integrati con accumuli e batterie, perché il loro costo è in costante diminuzione.
C’è anche molto dinamismo nella ricerca sulle batterie non solo per abbassarne il prezzo ma anche per ridurre la dipendenza dalle terre rare. Per esempio, proprio in queste settimane Letizia Magaldi, presidente di Kyoto Club e VP di Magaldi SPA, ha presentato una batteria a sabbia tutta italiana, mentre in giro per il mondo sono ormai realtà anche le batterie al sodio, che possono fare a meno del litio, che peraltro è oggi riciclabile per oltre l’80%.
E poi ci sono un sacco di altre ottime notizie. In queste settimane si è certificato che per la prima volta, nel primo semestre del 2025, la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili ha superato quella generata dal carbone, segnando un momento importante nella transizione energetica globale. E non è tutto: l'aumento dell'energia solare ed eolica ha superato la crescita della domanda globale di elettricità nella prima metà del 2025. Il solo solare ha soddisfatto l'83% dell'aumento. I combustibili fossili sono rimasti sostanzialmente invariati, con un leggero calo: un segnale importante, dato che l’obiettivo non è solo quello sopperire all’aumento del fabbisogno energetico con energie rinnovabili, ma di rimpiazzare tutta l’energia fossile prodotta. Purtroppo la strada è ancora lunga e, come era prevedibile dato il contesto politico, UE e USA hanno interrotto una tendenza alla diminuzione del consumo fossile.
Anche in Italia, nonostante ostacoli e scetticismo interessato profuso a piene mani, la transizione avanza. Secondo il 14° Rapporto annuale sull’efficienza energetica di ENEA, l’Italia nel 2024 ha raggiunto un risparmio energetico di 4,5 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, pari al 90% dell’obiettivo PNIEC e sufficiente ad alimentare oltre quattro milioni di abitazioni.
Il settore edilizio mostra progressi interessanti nonostante l’altalena di bonus: nel 2023 gli edifici nelle classi meno efficienti (F e G) sono scesi sotto il 50%, mentre quelli nelle classi più performanti (A4-B) sono aumentati di circa il 6%. Un segnale concreto che le politiche di efficienza e gli incentivi alla riqualificazione stanno producendo risultati tangibili, anche se, è bene precisarlo, le montagne russe sui bonus edilizi e la scarsa priorità data al tema ci stanno comunque lasciando lontani dai target europei al 2030.
Quanto alle fonti rinnovabili, nel 2025 hanno coperto il 42% della domanda elettrica nel primo semestre, con un calo rispetto all'anno precedente (44%) dovuto principalmente alla minore produzione idroelettrica. Nonostante ciò, il fotovoltaico ha registrato una crescita del 23% e ha superato la soglia del 55% del fabbisogno elettrico nel mese di maggio, raggiungendo un nuovo record storico, supportato anche da un aumento del 69% degli accumuli. E, alla fine di settembre 2025, sono stati aggiunti 4,5 GW di nuova capacità da rinnovabili, dopo il 7,5 del 2024; una crescita notevole soprattutto considerando che nel 2020 eravamo a quota 0,8 GW.
Di questi risultati, che sono importanti ma ancora non sufficienti, si parla troppo poco e in ogni caso meno che delle mirabolanti prospettive del nucleare pulito e del gas che si continua a ritenere indispensabile ancora per decenni. Insomma, pur se ci sono progressi in Italia li si ottengono obtorto collo, per la tenacia degli operatori e anche dei cittadini, in modo discontinuo, spesso in assenza, da parte dei decisori, di una reale conoscenza di ciò che succede sul campo e di ciò che conviene al paese: in altre parole, di una strategia condivisa a tutti i livelli. Strategia indispensabile per realizzare in tempi certi la transizione, assicurare risorse adeguate per l’adattamento dei territori ma anche dei lavoratori e delle lavoratrici a un mondo sempre più bollente e instabile.
E le conseguenze di questo puntare i piedi sono emerse molto chiaramente nel nuovo rapporto dell’Osservatorio rinnovabili di AGICI, Quanto costa restare fermi? I costi del non fare le rinnovabili, che spiega nei dettagli che non centrare gli obiettivi del PNIEC – 131 GW di rinnovabili al 2030 – peserebbe 137 miliardi di euro al 2050: oltre 5 miliardi l’anno di perdite per il paese. Oltre a condannarci a consumare 233 miliardi di metri cubi di gas, 10 milioni di tonnellate di olio combustibile e quasi 700.000 di carbone, con 585 milioni di tonnellate di CO₂ in più e 342.480 posti di lavoro potenziali che svaniscono nel nulla. E non reggiamo il confronto con altri paesi: in dieci anni (2015-2024) la capacità rinnovabile italiana è cresciuta solo del 44%, da 51 a 74 GW, molto meno di Germania, Spagna o Paesi Bassi, mentre il divario rispetto ai target resta di 17 GW.
Ecco perché, invece di spendere 7,5 milioni di euro per promuovere il nucleare, sarebbe molto meglio utilizzare quei fondi per finanziare un dibattito pubblico serio e informato su tutte le alternative energetiche. Un'opportunità per mettere a confronto rinnovabili, efficienza energetica con nucleare e gas; per informare e coinvolgere i cittadini, evitando la propaganda e superando una fittizia “neutralità” che in tempi di emergenza climatica proprio non ci possiamo permettere.
Abbiamo visto in questi mesi la forza di milioni di persone mobilitate per giustizia e pace. Ora serve la stessa determinazione per fermare il greenwashing, difendere clima, economia e lavoro, e dare voce a chi ha già scelto di abbandonare l’economia fossile. Perché anche quella climatica è una forma di ingiustizia, e non ci sarà pace su un pianeta in fiamme.
In copertina: immagine Envato