Quarantasei milioni di persone. È questa la cifra nascosta dietro la crisi migratoria del 2024: non profughi di guerra, non perseguitati politici, ma sfollati climatici. Uomini, donne e bambini costretti a lasciare le proprie terre da alluvioni, siccità, tempeste sempre più violente. Un esodo silenzioso che raramente fa notizia, ma che rappresenta già oggi la maggioranza degli sfollamenti per disastri ambientali.
La crisi climatica non è più una minaccia futura: è già qui, e si manifesta attraverso i corpi in movimento di milioni di persone. Eppure, mentre l’emergenza ambientale spinge intere popolazioni alla fuga, le democrazie occidentali continuano a erigere muri sempre più alti. È il paradosso denunciato dal rapporto Il diritto d’asilo 2025 della Fondazione Migrantes, presentato ieri, 9 dicembre, a Roma: più cresce l’urgenza, più si restringe l’accoglienza.
Geografia della vulnerabilità climatica
Quella dei 46 milioni di sfollati del 2024 è l’effetto tangibile di una geografia delle disuguaglianze climatiche. I dati UNHCR e IOM lo confermano: nell’ultimo decennio si sono registrati oltre 250 milioni di spostamenti interni dovuti a eventi meteorologici estremi, una media che supera i 70.000 al giorno. Nel solo 2023, i movimenti interni legati a disastri − principalmente inondazioni, tempeste e siccità − hanno toccato i 26,4 milioni di persone a livello globale. E tre quarti di tutti gli sfollati vivono oggi in paesi con esposizione “alta-estrema” ai rischi climatici.
L’Africa subsahariana emerge come l’epicentro di questa crisi: 6 milioni di spostamenti annui per disastri ambientali, il 23% del totale globale, in un territorio dove il 75% delle terre è già colpito dal degrado del suolo. Il Corno d’Africa affronta siccità prolungate devastanti, mentre il ciclone Freddy ha causato da solo 1,4 milioni di spostamenti. I campi profughi in Gambia, Eritrea, Etiopia, Senegal e Mali operano già in condizioni di stress estremo, e le proiezioni scientifiche indicano che entro il 2050 molti di questi insediamenti diventeranno inabitabili per il calore letale.
In Asia orientale e Pacifico si concentra il maggior numero di spostamenti: 9 milioni nel 2023, il 34% del totale mondiale, causati principalmente da tifoni e terremoti in paesi come Filippine, Indonesia e Vietnam. Il Bangladesh rappresenta un caso emblematico: l’erosione fluviale e le temperature crescenti alimentano migrazioni interne massicce verso centri urbani come Dhaka, città che si trasformano in contenitori di vulnerabilità.
In Medio Oriente e Nord Africa, 1,3 milioni di spostamenti sono legati allo stress idrico e al crollo della produzione agricola. La siccità e la competizione per risorse sempre più scarse innescano un esodo silenzioso verso i centri urbani. In Sudan, Ciad e Sudafrica, l’alternanza tra inondazioni devastanti e siccità prolungate disegna una geografia dell’emergenza permanente. In Europa e Asia centrale, i 4,3 milioni di sfollati del 2023 sono stati causati principalmente dal terremoto in Turchia e Siria (6,1 milioni di persone coinvolte), ma anche da incendi, tempeste e inondazioni sempre più frequenti.
Nelle Americhe, 2,1 milioni di persone si sono spostate per cause ambientali, con la siccità che spinge popolazioni dall’America Centrale (Guatemala, Honduras) verso gli Stati Uniti, mentre la desertificazione e l’innalzamento dei mari colpiscono le isole del Pacifico. Ovunque, la stessa dinamica: chi meno ha contribuito alla crisi climatica ne paga il prezzo più alto. La geografia della vulnerabilità climatica coincide con quella delle disuguaglianze globali.
Quando il ritorno è solo apparente
Il report segnala poi un dato di 1,2 milioni di ritorni registrati nel 2025 che potrebbe sembrare un segnale positivo, ma la realtà è ben diversa. UNHCR sottolinea che questi rientri avvengono in “circostanze sfavorevoli”, verso zone dove la reintegrazione rimane problematica. Afghanistan e Siria, destinazioni principali di questi ritorni, sono paesi segnati dalla fragilità strutturale, dove i cambiamenti climatici si intrecciano con conflitti e instabilità politica. Tornare significa spesso ritrovarsi in contesti altrettanto vulnerabili, se non peggiori, di quelli lasciati: terre improduttive, infrastrutture distrutte, assenza di servizi essenziali.
Quello che emerge dai dati è che la crisi climatica e quella umanitaria si alimentano a vicenda. Le proiezioni UNHCR indicano che entro il 2050 molti campi profughi africani diventeranno invivibili a causa del calore estremo. Significa che chi oggi vive in queste strutture temporanee potrebbe essere costretto a spostarsi ancora, in un ciclo di sradicamenti senza fine.
IOM e UNHCR hanno più volte ribadito che la crisi climatica non può più essere trattata come una questione separata dalla protezione internazionale. Chi fugge dalla desertificazione, dall’innalzamento dei mari o da tempeste sempre più violente merita la stessa dignità e gli stessi diritti di chi fugge da guerre e persecuzioni. Eppure, le politiche europee continuano a privilegiare il contenimento rispetto all’accoglienza, l’esternalizzazione delle frontiere rispetto al riconoscimento delle responsabilità storiche.
Come sottolinea il Rapporto Migrantes, la transizione ecologica, se vuole essere giusta, non può lasciare indietro chi già paga il prezzo più alto dell’emergenza climatica. I 46 milioni di sfollati climatici sono l’avanguardia involontaria di una crisi che si intreccia indissolubilmente con guerre, autoritarismi e crescenti disuguaglianze.
I flussi migratori nel 2025
Alla metà del 2025, 117,3 milioni di persone nel mondo vivono in condizione di sradicamento forzato. Una diminuzione apparente − 5,9 milioni in meno rispetto a fine 2024 − che nasconde una realtà amara: ritorni in condizioni sfavorevoli verso Afghanistan, Congo, Sudan e Siria, dove la reintegrazione rimane problematica. Nel frattempo, il 70% della popolazione mondiale vive sotto governi autoritari, e le guerre continuano a moltiplicare i profughi. I numeri del Mediterraneo restano una ferita aperta che non si rimargina.
Alla fine di settembre 2025, la stima per difetto dei morti e dei dispersi sfiora già le 1.300 persone. Di queste, 885 vittime hanno tentato la traversata del Mediterraneo centrale: la rotta più letale del mondo. Il rischio è tangibile, misurabile: 1 caso ogni 58 arrivi sulle coste italiane o maltesi. Sulla rotta atlantica verso le Canarie, la situazione è ancora più drammatica: 1 vita persa ogni 33 persone sbarcate.
Il 2024 ha registrato il più alto tributo mai documentato su questa rotta: 1.239 morti e dispersi. Nel frattempo, continua il sistema di “riammissioni” verso la Libia. Solo tra gennaio e settembre 2025, quasi ventimila persone sono state fermate in mare dai guardiacoste libici e riportate in quello che il rapporto definisce “un sistema collaudato di miseria, arbitrio, vessazioni, taglieggiamenti e violenze”. Il trend è in aumento rispetto al 2024, nonostante le denunce delle organizzazioni internazionali.
I flussi irregolari verso l’UE nei primi otto mesi del 2025 registrano un calo del 21%. Una diminuzione che, come sottolinea l’ICS di Trieste, “segnala un aumento dei respingimenti illegali alle frontiere esterne dell’UE” più che un reale successo nella lotta alle organizzazioni criminali. Le persone continuano a fuggire, ma diventano sempre più invisibili.
Italia, il paradosso dei dinieghi record
Nel 2024, mentre nell’Unione Europea le domande d’asilo calavano del 13% (Germania -30%), l’Italia ha segnato il suo massimo storico con quasi 159.000 richieste, registrando un incremento del 16%. Nei primi otto mesi del 2025, le richieste sono scese a circa 85.000 (-20%), ma è sulle decisioni che emerge la vera stretta: nel primo semestre 2025, le Commissioni territoriali hanno pronunciato il 69,5% di dinieghi, contro il 64% del 2024 e una media europea del 51%. Una tendenza restrittiva pluriennale che raggiunge il suo culmine proprio mentre aumenta la pressione migratoria.
All’inizio del 2025 vivono in Italia circa 484.000 cittadini non comunitari con permesso per protezione e asilo, lo 0,8% della popolazione: un aumento del 17% rispetto all’anno precedente. Eppure l’Italia si colloca in coda rispetto a Germania, Polonia, Francia, Regno Unito e Spagna, ed è superata anche da Svezia, Grecia e Bulgaria per densità di rifugiati.
Una ricerca UNHCR svela l’iniquità profonda del sistema: se gli italiani in povertà relativa sono il 17%, per i beneficiari di protezione internazionale il valore esplode al 67%. Tre rifugiati su quattro, a livello globale, continuano a essere accolti in paesi a basso o medio reddito. La solidarietà non è mai stata equamente distribuita.
Gli arrivi via mare sono in crescita: tra gennaio e ottobre 2025 circa 59.000 persone sbarcate (+7%). Il Bangladesh è il principale paese d’origine con quasi 18.000 arrivi, seguito da Egitto, Eritrea, Pakistan, Sudan e Somalia. La Libia rimane il principale paese di partenza: alla fine di luglio 2025, quasi 33.000 arrivi dalle sue spiagge, l’89% del totale.
Le file della vergogna: quando l’attesa diventa pena
Davanti alle questure italiane si consumano ogni giorno scene che il rapporto Migrantes definisce “pratiche di esclusione e attesa infinite”. Sono le cosiddette “file della vergogna”: code interminabili di richiedenti asilo che aspettano per ore, a volte per giorni, di poter semplicemente prenotare un appuntamento per rinnovare un documento.
Uno studio condotto presso la Pontificia Università Gregoriana con rifugiati che frequentano il Centro Astalli e il Sacro Cuore dei Salesiani a Roma ha documentato come “i lunghi ritardi in questura, la difficoltà nel prenotare gli appuntamenti e la comunicazione inaffidabile da parte dei funzionari” causino stress e ansia continui.
Non è solo una questione burocratica: è la sospensione della vita. Il rapporto parla di “zone di non essere”, spazi materiali e simbolici di disumanizzazione in cui i migranti sono ridotti a oggetti amministrati, privi di riconoscimento e di voce. L’attesa diventa essa stessa una forma di detenzione invisibile, una punizione che non ha mai fine.
Amadou e il tempo rubato
La vicenda di Amadou Jaiteh, giovane gambiano arrivato in Italia come minore non accompagnato, è indicata nel rapporto come simbolo delle “molteplici forme di esclusione e violenza strutturale presenti nel sistema d’asilo”. La sua storia è quella di un tempo rubato: lungaggini amministrative estenuanti, decisioni arbitrarie che svuotano di contenuto la garanzia costituzionale dell’asilo.
Il percorso di Amadou mette in luce come le Commissioni territoriali, spesso subordinate a direttive governative, riducano l’ascolto individuale a un mero atto formale. La detenzione amministrativa si trasforma in uno strumento ordinario per la gestione dei flussi, mentre emerge la dimensione economica del fenomeno: lo sfruttamento dei migranti privi di titolo di soggiorno. Questo processo, descritto dal Rapporto come la “vaporizzazione del diritto”, sospende le vite e i sogni dei migranti, negando loro libertà e dignità. Restituire tempo e parola ai migranti diventa così un simbolo della riconquista della sovranità personale e collettiva.
La storia di una giovane donna ivoriana vittima di tratta e richiedente asilo in Italia, poi, raccontata dal rapporto, rivela come il sistema contribuisca a cronicizzare i traumi invece di curarli. La tratta di esseri umani è una forma di schiavitù contemporanea che sfrutta la vulnerabilità delle vittime, attirandole nelle reti criminali con la promessa ingannevole di un futuro migliore.
Nel faticoso processo di ricomposizione del sé − che passa anche attraverso il riconoscimento istituzionale delle dolorose esperienze vissute − queste donne si trovano ad affrontare altre forme di violenza imposte dall’ordinamento. Illegittimi rituali burocratici e forme di abbandono le costringono all’esasperante ripetizione dei traumi, segnando inevitabilmente le loro prospettive e i loro progetti.
Il “modello Albania”: laboratorio di esternalizzazione
Il “modello Albania” è analizzato dal rapporto come “paradigma delle nuove forme di esternalizzazione del controllo migratorio”, un progetto che si colloca “ai margini della democrazia”. Il protocollo Italia-Albania prevede la gestione dei flussi migratori fuori dai confini nazionali, trasformando la detenzione amministrativa in uno strumento di governo.
“Il progetto rappresenta un laboratorio per l’estensione extraterritoriale del controllo”, si legge nel documento. “L’opacità sistemica diventa strumento di governo, mentre l’inefficacia in termini di rimpatri si trasforma in efficacia politica.” L’esclusione di media e società civile non è un effetto collaterale, ma parte integrante del meccanismo.
Il modello non va visto come “mostro isolato”, avverte il rapporto, ma come “banco di prova per la tenuta dei princìpi democratici dell’Unione”. Mariacristina Molfetta e Chiara Marchetti, curatrici dello studio, denunciano la “normalizzazione dell’assurdo”: “Ciò che ci viene proposto come normalità continua a essere una violazione dei diritti. Assistiamo all’accettazione di politiche un tempo inaccettabili: respingimenti, accordi con regimi autoritari, giustificati in nome della sicurezza”.
I minori invisibili
E poi c’è quella che potrebbe sembrare una buona notizia, ma che in realtà nasconde una domanda inquietante. Dopo anni di forte crescita, il 2024 ha visto diminuire i minori stranieri non accompagnati (MSNA) richiedenti asilo nell’UE: meno di 34.600 (-20% sul 2023). I dati del primo semestre 2025 accentuano la tendenza: circa 11.300 minori richiedenti (-35%).
Ma dove sono finiti questi bambini e ragazzi? In Italia, 17.160 minori censiti ad agosto 2025 (-14%), di cui 15.115 ragazzi (88%) e 2.045 ragazze (12%). Del totale, il 16% si trova in prima accoglienza, il 63% in seconda accoglienza, il 21% presso famiglie, soprattutto minori ucraini ospiti di parenti. Preoccupante il dato degli allontanamenti: 2.572 minori si sono allontanati dall’accoglienza nel primo semestre 2025, soprattutto eritrei ed egiziani. Tre quarti di loro erano appena arrivati. Ragazzi che scompaiono dalle statistiche, che scivolano nell’invisibilità, vulnerabili allo sfruttamento e alla tratta.
Dopo sei anni di prevalenza afghana, nel 2023 è prevalsa la cittadinanza siriana, cresciuta del 50% in 12 mesi. I tutori volontari iscritti presso i tribunali per i minorenni sono 4.273 al 30 giugno 2024 (+7%): un segnale di impegno civile che contrasta con l’insufficienza delle politiche pubbliche.
Il Rapporto invita a non accettare questa normalizzazione: guerre protratte, respingimenti sistematici, accordi con regimi autoritari giustificati in nome della sicurezza. “In un mondo che rischia di normalizzare crisi e disumanizzazione, il riconoscimento dell’umanità di chi fugge rimane fondamento irrinunciabile di ogni democrazia”.
In un’epoca in cui 46 milioni di individui sono costretti a migrare per eventi climatici, l’intreccio tra giustizia ambientale e diritti umani non può più essere ignorato. La transizione ecologica, se vuole essere giusta, non può lasciare indietro chi già paga il prezzo più alto dell’emergenza climatica. I 46 milioni di sfollati climatici del 2024 sono l’avanguardia involontaria di una crisi che si intreccia indissolubilmente con guerre, autoritarismi e crescenti disuguaglianze. Riconoscere questa connessione non è più un’opzione: è una necessità per costruire un futuro in cui la dignità umana non sia negoziabile.
In copertina: Salah Darwish, Unsplash
