Quando si parla dell’impatto che i cambiamenti climatici hanno sulla mobilità umana è molto semplice scadere in semplificazioni e ragionamenti deterministici basati su assunzioni di partenza poco solide da un punto di vista scientifico.

La quasi totalità degli studi incentrati sulle climate mobilities, che negli ultimi dieci anni hanno preso sempre più piede negli ambienti accademici data la loro crescente attualità, concordano sul fatto che quello delle migrazioni indotte da fattori climatici e ambientali sia un fenomeno molto complesso da decifrare e raccontare, complice la sua pluralità e multicausalità.

Ed è proprio dalla volontà di sistematizzare quanto la letteratura sul tema è stata in grado di restituirci nell’ultimo mezzo secolo − è soprattutto a partire dagli anni Settanta che il dibattito sulle migrazioni climatiche ha fatto la sua comparsa nelle accademie − che ActionAid ha pubblicato il report Il cambiamento climatico non conosce frontiere, un tentativo di fornire al pubblico una fotografia nitida del nesso tra migrazioni umane e clima.

Il clima come moltiplicatore di vulnerabilità

Emblematico, a questo proposito, il primo capitolo del documento, Navigare nella complessità della mobilità climatica, opera di Roberto Sensi, coordinatore del progetto di ricerca. All’interno del report, l’autore non si limita a esplorare gli effetti della crisi climatica sui pattern migratori, che sono molteplici e soprattutto multiformi, generati cioè sia da eventi sudden-onset (fenomeni metereologici estremi come alluvioni, incendi, uragani), che da eventi slow-onset (fenomeni che manifestano le proprie conseguenze sul lungo periodo, come desertificazione o innalzamento dei livelli del mare), ma si sofferma anche sul concetto di vulnerability-multiplier, che ci aiuta a chiarire la natura del nesso di causalità che lega clima e mobilità.

In altre parole, se è possibile affermare che, in determinate circostanze, le migrazioni umane sono provocate dai cambiamenti climatici, sarebbe tuttavia fuorviante e riduttivo identificare questi ultimi come unico driver degli spostamenti stessi. Come spiega Sensi, il cambiamento climatico agisce infatti sulle popolazioni da esso colpite come moltiplicatore di vulnerabilità preesistenti inducendole (talvolta costringendole), per motivi socioeconomici, politici e demografici, oltreché ambientali, a migrare.

E tuttavia questa stessa scelta, anche quando obbligata, è frutto di condizioni materiali precise, e che costituiscono, de facto, un privilegio riservato a pochi. Uno dei più grandi fraintendimenti legati al tema delle migrazioni climatiche riguarda l’assunzione deterministica fallace, molto spesso strumentalizzata da certe frange politiche estremiste, secondo cui il cambiamento climatico conduca, in ogni caso, all’intensificazione dei flussi migratori. In realtà, per quanto controintuitivo possa sembrare a un’analisi superficiale, le cose stanno diversamente.

L’immobilità climatica

Nel suo contribuito, Sensi spiega come anche il fenomeno dell’immobilità (in inglese, climate immobility) vada incluso nello spettro delle migrazioni riconducibili ai cambiamenti climatici. Solitamente poco raccontato dalla letteratura, quello dell’immobilità rappresenta uno dei nodi politici cruciali legato a questo tema. In breve, si tratta di un fenomeno che interessa le trapped populations, quelle comunità che, proprio a causa di quelle stesse vulnerabilità preesistenti esacerbate dagli effetti del cambiamento climatico di cui sopra, rimangono “intrappolate” nella propria terra d’origine, senza possibilità di fuga.

Da ciò l’importanza, nel raccontare il nesso tra mobilità umana e clima, di tenere sempre a mente che i migranti climatici, quelli che in definitiva riescono a scappare dai disastri ambientali che mettono in pericolo la loro esistenza, costituiscono una minoranza “privilegiata” di individui che possiede i mezzi per poterlo fare: capitale finanziario (disponibilità economica) e sociale (presenza di un network nel paese di destinazione), condizioni sine qua non della migrazione.

Ed è proprio sulla scorta di questa acquisita consapevolezza che a partire dal 2010, grazie all’adozione del Cancun Adaptation Framework prima e alla pubblicazione del Foresigth Report poi, si è diffuso il paradigma della “migration as adaptation”, dell’idea, cioè, secondo cui la migrazione rappresenti una strategia di adattamento efficace e risolutiva per rispondere ai cambiamenti climatici. Un’idea, questa, intrisa non solo di una profonda moralità ma, va detto, anche di un certo pragmatismo tale per cui, molto spesso, aiutare le comunità più esposte a migrare significa offrire loro la possibilità concreta di mettersi in salvo.

La protezione legale dei migranti climatici

Un’altra sezione del report, firmata questa volta da Francesco Ferri e Lorenzo Figoni, è dedicata al tema della protezione legale dei migranti climatici nel quadro del diritto internazionale. Sebbene nel dibattito politico la categoria di “rifugiato climatico” sia molto spesso adoperata da attivisti, organizzazioni ambientaliste ma anche giuristi del settore, l’utilizzo di questo termine è improprio da un punto di vista squisitamente legale. Come è noto agli addetti ai lavori, infatti, la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato non menziona, tra le motivazioni che comportano l’attribuzione del diritto di asilo, fattori legati ai cambiamenti climatici antropici.

Se da un lato, ricordano gli autori, questo vuoto normativo va contestualizzato nella sua dimensione storica, e letto dunque alla luce delle contingenze sociopolitiche che hanno portato alla ratifica di questo documento all’indomani del secondo conflitto mondiale, dall’altro esso costituisce un ostacolo al riconoscimento politico, oltreché legale, di un gruppo di individui in costante aumento. Di conseguenza, le considerazioni legali di applicabilità della Convenzione di Ginevra, che al momento escludono i “rifugiati climatici” dall’ottenimento della protezione internazionale, interrogano Ferri e Figoni sull’opportunità di giungere, in futuro, a un’interpretazione estensiva del testo.

E tuttavia, al di là dei cavilli tecnico-giuridici che attualmente rendono questa eventualità piuttosto remota (su tutti il tema legato all’identificazione di un “persecutore”, che nel caso del climate change non risponde a un singolo stato ma a una collettività di attori statali e non statali), due sono le ragioni per le quali, anche da un punto di vista concettuale oltreché formale, questo scenario appare difficilmente realizzabile.

La prima ha a che fare con la cosiddetta questione terminologica, e cioè con il fatto che, a oggi, non esista ancora una definizione internazionalmente riconosciuta e condivisa di “migrante climatico” né di “migrazioni climatiche”. Infatti, sono ancora molteplici i termini utilizzati da studiosi ed esperti del settore, tutti con accezioni e sfumature diverse. Per citarne alcuni: eco-refugees, environmental migrants, climate refugees, climate-induced migrants, people on the move.

La seconda riguarda il fatto che, come suggerito dalla letteratura, la maggior parte delle migrazioni climatiche sono interne. Ne consegue che il riconoscimento dello status di rifugiato climatico a livello di diritto internazionale non aiuterebbe a garantire protezione a tutti coloro che si muovono su brevi distanze e senza oltrepassare i confini statali, che nondimeno rappresentano la gran parte delle persone interessate da questo fenomeno.

Il ruolo dell’Europa

A chiudere, è importante citare anche il capitolo che il rapporto di ActionAid dedica al ruolo dell’Europa nella gestione della mobilità legata al cambiamento climatico, realizzato da Chiara Scissa.

L’autrice esordisce constatando come, a livello europeo, “il riconoscimento del nesso tra cambiamento climatico e migrazione è molto debole”, e cita come unico esempio davvero rilevante in merito la Risoluzione 2401 su clima e migrazione adottata dall’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa nel 2021.

Secondo Scissa, però, la contraddizione più grande nella maniera in cui le istituzioni comunitarie (non) si occupano di migrazioni climatiche è la netta separazione tra le due sfere politiche, quella ambientale e quella migratoria, “che sembra ignorare le prove scientifiche degli effetti globali e trasversali del cambiamento climatico, compreso il suo impatto sulla definizione dei modelli di mobilità sia interna che internazionale”.

A questo proposito, è emblematico il fatto che all’interno del Green Deal, il pacchetto legislativo sulla transizione ecologica lanciato dalla Commissione europea nel 2019, la categoria dei migranti non venga neppure menzionata. Questo a dispetto della chiara influenza che i cambiamenti climatici esercitano sui flussi migratori, ma anche dell’impatto diretto che gli stessi hanno sui mezzi di sussistenza dei migranti che già abitano il continente europeo.

Una scelta, quella di escludere i migranti dal Green Deal, che non solo comporta il mancato riconoscimento della loro presenza e del loro ruolo nella società di accoglienza, ma che potrebbe finire per depotenziare l’implementazione del Green Deal laddove si continui a trascurare l'importanza dei migranti in settori economici chiave per la transizione verde (pensiamo soltanto all'industria, all'agricoltura e alla pesca).

Per queste ragioni, tra le raccomandazioni principali poste a conclusione del report, c’è quella di “creare sinergie tra gli sforzi dell’UE in materia di cambiamento climatico e la sua governance sulla migrazione”. Soltanto così, infatti, sarà possibile assicurare la protezione delle persone sfollate a causa degli effetti della crisi climatica contribuendo, al contempo, all’accelerazione della transizione ecologica.

Roberto Sensi, intervistato da Materia Rinnovabile, ha insistito sulla miopia e sulla poca lungimiranza delle politiche migratorie implementate finora dall’Unione Europea, e sulla necessità di un cambio di rotta: “Coerentemente con l’impianto complessivo delle politiche migratorie, le risposte alle sfide delle migrazioni climatiche rimangono imperniate sul principio della deterrenza e sulle strategie di esternalizzazione delle frontiere. Anziché ampliare le opportunità di protezione all’interno dei confini europei per coloro che si spostano a causa del clima, gli interventi di risposta si basano sulla promozione di buone pratiche di cooperazione allo sviluppo con i paesi del Sud Globale. Questo approccio contraddice la narrazione politica costruita negli ultimi anni attorno al tema, soprattutto all’interno dei forum climatici multilaterali come l'UNFCCC. Sebbene la mobilità climatica sia ancora prevalentemente un fenomeno interno, l'intensificarsi della crisi climatica avrà un impatto significativo sulle determinanti migratorie. Per questo è necessaria una risposta basata sulla giustizia climatica e sul rispetto dei diritti umani, che riconosca le responsabilità dei paesi del Nord per le conseguenze ambientali del cambiamento climatico, e che faccia sì che la migrazione sia una scelta e non una necessità, così come che restare o spostarsi sia un diritto garantito a tutti.”

Roberto Sensi

 

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Immagine di copertina: Humberto Chavez, Unsplash