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Ralph Regenvanu era presente in aula alla Corte internazionale di giustizia dell'Aja ieri pomeriggio, mercoledì 23 luglio, quando è arrivata la notizia che aspettava da sei anni. Viso da attore, antropologo di formazione, è un artista (le sue opere sono state esposte anche al British Museum) e politico per necessità. È una figura centrale della diplomazia climatica di Vanuatu, il piccolo stato insulare dell’Oceano pacifico meridionale, composto da 83 isole tropicali situate tra l'Australia e le Fiji, tra i territori più esposti agli effetti del cambiamento climatico, come l'innalzamento del livello del mare, la salinizzazione delle acque dolci e gli eventi meteorologici estremi. Ha dedicato gli ultimi anni a una battaglia legale senza precedenti. E ora ha vinto.

Grazie alla denuncia di questo piccolo stato che sta finendo sott’acqua, la Corte internazionale di giustizia ha emesso un parere consultivo che gli esperti già definiscono "storico": ha stabilito che il cambiamento climatico rappresenta una "minaccia esistenziale" per l'umanità e gli stati hanno obblighi giuridici precisi per contrastarlo. Per la prima volta, la massima Corte mondiale chiarisce che le attività legate ai combustibili fossili possono costituire atti illeciti in base al diritto internazionale. “Credo che cambierà radicalmente il modo in cui parliamo di clima in tutto il mondo”, ha dichiarato Regenvanu, emozionatissimo.

Il peso di questa decisione è amplificato da un dettaglio straordinario: tutti e 15 i giudici della Corte hanno raggiunto ogni singola conclusione all'unanimità. Non è solo il parere di una maggioranza, ma il consenso totale della massima autorità giudiziaria mondiale. Un consenso che riflette quello che ha portato alla richiesta stessa: la risoluzione dell'Assemblea generale è stata co-sponsorizzata da ben 132 stati membri e adottata senza alcun voto contrario.

Le parole della Corte: una svolta giuridica globale

Le frasi pronunciate durante la lettura del dispositivo dal presidente della Corte, il giudice Iwasawa Yuji, hanno l’effetto di parole scolpite nella roccia: “Le conseguenze negative del cambiamento climatico potrebbero compromettere significativamente il godimento di alcuni diritti umani, incluso il diritto alla vita. La mancata adozione da parte di uno stato di misure appropriate per proteggere il sistema climatico dalle emissioni di gas serra − inclusa la produzione, il consumo, l'esplorazione o il sovvenzionamento dei combustibili fossili − può costituire un atto illecito a livello internazionale”.

Sembrano le tavole della nuova legge climatica mondiale perché è la prima volta che un tribunale internazionale collega esplicitamente l'estrazione e l'uso di combustibili fossili alla violazione del diritto internazionale. La Corte però si spinge oltre: di fronte a danni ormai avvenuti, non si può chiudere un occhio. Se la restituzione non è più possibile, lo stato responsabile ha l'obbligo di risarcire.

Chi inquina paga: non è più uno slogan, è un’ipotesi che si materializza e appare realistica. Da conquistare caso per caso, certo, ma già mostra una forza sostanziale ineccepibile. Obblighi e responsabilità: la Corte proclama e sottrarvisi sarà molto difficile anche perché la sentenza apre la porta a decine e decine di nuove cause climatiche, le climate litigation che hanno costretto i colossi del fossile a investire sempre di più in spese legali.

Una nuova Costituzione climatica globale

La lettura della sentenza dà la sensazione di essere al cospetto di una nuova Costituzione climatica globale, e come tutte le Carte fondanti vivrà sulle gambe di chi vorrà e potrà farla rispettare. C’è la parte dei diritti e quella delle responsabilità. Per la prima, la frase chiave è che il diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile è un diritto umano essenziale, parte integrante dei diritti alla vita, alla salute e alla dignità.

Sulle responsabilità, la sentenza compie un passo decisivo nel delineare con chiarezza i doveri che incombono sugli stati nel quadro del diritto internazionale. Ora l'inazione climatica potrebbe costituire una violazione giuridica, e gli stati hanno il dovere di prevenire danni ambientali significativi.

Il cuore del parere sta quindi in un principio fondamentale: ogni stato ha il dovere di adottare misure efficaci e tempestive per contrastare le emissioni di gas serra derivanti da attività umane. Questo non è più solo un obiettivo politico o un impegno morale, ma un vero e proprio obbligo giuridico, fondato su norme consuetudinarie, trattati internazionali come l'Accordo di Parigi, e princìpi consolidati come la prevenzione, la precauzione, l'equità e lo sviluppo sostenibile.

Cruciale è la precisazione della Corte sull'obiettivo di 1,5°C: non è più solo "uno degli obiettivi" dell'Accordo di Parigi, ma è diventato l'obiettivo primario. L'adozione di politiche di mitigazione non può essere lasciata alla discrezionalità dei governi: deve rispettare uno standard di "diligenza dovuta", che la Corte descrive come stringente e commisurato alle capacità e responsabilità storiche di ciascun paese.

Insomma, non basta dichiarare ambiziosi obiettivi a lungo termine: gli stati devono dimostrare con atti concreti di fare tutto ciò che è in loro potere, secondo le migliori conoscenze scientifiche disponibili, per limitare l'aumento della temperatura globale a 1,5 gradi Celsius.

Il principio di "responsabilità comuni ma differenziate e capacità rispettive", già sancito dalla Convenzione quadro sul clima e dall'Accordo di Parigi, acquista così una nuova forza normativa: i paesi più ricchi e industrializzati, che storicamente hanno emesso di più, hanno l'onere maggiore di ridurre le proprie emissioni e di assistere quelli più vulnerabili, offrendo supporto finanziario, trasferimento tecnologico e rafforzamento delle capacità locali.

Particolarmente significativa è l'affermazione secondo cui uno stato può essere ritenuto giuridicamente responsabile non solo per azioni, ma anche per omissioni che abbiano causato danni significativi al clima e all'ambiente. E questi obblighi climatici sono "erga omnes”: ciò significa che qualsiasi paese può invocare la responsabilità di altri stati per violazioni climatiche, anche se non è direttamente danneggiato. In questi casi, la responsabilità non si esaurisce con la cessazione del comportamento illecito: gli stati colpevoli devono anche riparare il danno causato, secondo quanto previsto dalle norme internazionali sulla responsabilità degli stati.

Parola d’ordine: cooperare

Ma la Corte ci sta attenta a scrivere parole che possano delineare scenari da tutti contro tutti e, al contrario, punta sulla cooperazione. Sembra un mondo immaginario, visto che le cronache ci raccontano di guerre, dazi, ripicche, punizioni. Invece il massimo organo giudiziario dell’ONU richiama con forza il dovere di cooperazione tra stati. “In un sistema globale interdipendente, affrontare la crisi climatica non è possibile senza una collaborazione sincera, trasparente e continua”, si precisa. La cooperazione, sottolinea la Corte, non è una scelta politica, ma un obbligo giuridico che deve ispirare tutte le azioni multilaterali sul clima. In sintesi, la sentenza dell'Aja alza l'asticella: gli stati non sono più liberi di scegliere se agire o meno sul clima. Hanno il dovere di farlo. E da oggi, quel dovere ha la forza del diritto.

E Trump? E il disimpegno di molti stati? E le scelte ambientalmente dannose di finanziare le fossili? Saranno tutti fronti di battaglie legali che potranno entrare nel dettaglio dei singoli comportamenti errati e da sanzionare. Si apre una stagione tutta da scrivere.

La battaglia di un piccolo arcipelago contro i giganti del carbonio

Per comprendere la portata di questo momento, bisogna tornare al 2019, quando un gruppo di studenti dell'Università del Pacifico Meridionale propose di portare la questione climatica davanti alla Corte dell'Aja. Senza la leadership di Vanuatu e la determinazione di Ralph Regenvanu, quella proposta sarebbe rimasta lettera morta.

Con soli 320.000 abitanti sparsi in 83 isole, Vanuatu rappresenta appena lo 0,004% della popolazione mondiale, ma ha avuto il coraggio e la forza diplomatica di sfidare i giganti responsabili della crisi climatica. “Gli accordi internazionali tra stati non stanno andando abbastanza veloci”, ha spiegato Regenvanu all'Associated Press, dando voce alla frustrazione di chi teme che la propria terra sparisca in fretta. Serviva un cambio di passo, ed è stato fatto in un tribunale, a poche ore di distanza dalla sentenza della Cassazione italiana che ha ammesso a giudizio la causa di Greenpeace, ReCommon e dodici cittadini contro ENI, Cassa depositi e prestiti e il MEF.

Anche le Nazioni Unite, tramite la relatrice speciale per il cambiamento climatico e i diritti umani, Elisa Morgera, hanno accolto con entusiasmo la pronuncia: “Oggi siamo entrati in una nuova era di responsabilità climatica. La Corte ha detto chiaramente che danneggiare il clima equivale a violare il diritto internazionale e i diritti delle persone. I governi devono ridurre le emissioni per proteggere la vita e risarcire i danni già causati”.

Le implicazioni per il futuro

Il parere della Corte non è formalmente vincolante, ma ha un'autorità morale e giuridica che potrebbe ridefinire il paesaggio delle controversie climatiche globali. Fornisce una base solida per rafforzare le politiche ambientali, per mobilitare nuove risorse e per alimentare le richieste legali da parte di comunità colpite.

Per le multinazionali legate ai combustibili fossili, il messaggio è chiaro: non si tratta più solo di pressioni dell'opinione pubblica o di raccomandazioni scientifiche. Esiste ora un quadro giuridico internazionale che delinea con precisione responsabilità e possibili conseguenze legali. Il 23 luglio 2025 passerà alla storia come il giorno in cui la giustizia climatica ha smesso di essere una speranza e ha iniziato a parlare il linguaggio del diritto.

 

In copertina: foto della seduta © International Court Of Justice