Dopo quattro anni di dibattimento, 130 udienze, circa 300 parti civili coinvolte e una mole imponente di documentazione tecnica e testimonianze, si è finalmente giunti all’epilogo del processo penale di primo grado sul caso Miteni, celebrato presso la Corte d’Assise di Vicenza.
Una vicenda che ha scosso il Veneto e l’intero paese, trasformandosi nel simbolo dell’urgenza di affrontare con determinazione l’inquinamento da PFAS, composti poli- e perfluoroalchilici utilizzati in numerosi processi industriali ma noti per la loro elevata persistenza ambientale e tossicità. Al centro del procedimento, l’attività della Miteni, azienda chimica con sede a Trissino (Vicenza), specializzata nella produzione di intermedi per l’industria chimica e farmaceutica, e di derivati perfluorurati come PFOA.
Dopo sei ore di camera di consiglio, il 26 giugno la Corte d’Assise di Vicenza ha emesso la sentenza. Undici dei quindici imputati, tutti ex manager dell’azienda, sono stati condannati a pene comprese tra 2 anni e 8 mesi e 17 anni e 6 mesi, per un totale complessivo di 141 anni di reclusione. I quattro restanti sono stati assolti. La Corte ha inoltre disposto un maxi-risarcimento di 58 milioni di euro in favore del Ministero dell’ambiente.
L’inquinamento da PFAS causato dallo stabilimento di Trissino ha colpito un territorio abitato da oltre 300.000 persone, estendendosi su oltre 100 chilometri quadrati e contaminando la seconda falda acquifera più grande d’Europa. Una contaminazione che non ha solo compromesso le acque potabili e l’ambiente naturale, ma ha avuto anche profonde implicazioni sanitarie e sociali. Durante il procedimento, i pubblici ministeri avevano richiesto condanne per 9 dei 15 imputati, per un totale di 121 anni e sei mesi di reclusione.
Processo Miteni, una lunga battaglia per la salute e l’ambiente
Nel processo Miteni erano imputate quindici persone, tra manager e dirigenti di Mitsubishi Corporation e del fondo di investimento International Chemical Investors Group (ICIG). Mitsubishi ha detenuto il controllo di Miteni dal 1998 (dopo averlo gestito in collaborazione con Enimont) fino al 2009, quando ha venduto la società a ICIG Italia 3 Holding. Lo stabilimento è stato attivo dal 1965, quando si chiamava RiMar (“Ricerche Marzotto”), fino al fallimento avvenuto nel 2018.
Nel 2024 il TAR del Veneto aveva già confermato la responsabilità di Mitsubishi Corporation nella contaminazione da PFAS legata allo stabilimento Miteni di Trissino, respingendo il ricorso della multinazionale giapponese e obbligandola a contribuire alla bonifica ambientale. A maggio 2025 il Tribunale di Vicenza riconosceva invece per la prima volta in Italia la correlazione tra l’esposizione ai PFAS e la morte di un lavoratore: Pasqualino Zenere, ex operaio della Miteni.
Va sottolineato che a sostenere in questi anni la battaglia per la verità e la tutela della salute pubblica in Veneto è stata una fitta rete di comitati, movimenti civici e associazioni ambientaliste e sanitarie. Le Mamme No PFAS, Greenpeace, Medicina Democratica, ISDE - Medici per l’Ambiente, e la Rete Zero PFAS Italia si sono costituite parte civile o hanno svolto un ruolo attivo nella mobilitazione sociale, promuovendo manifestazioni, convegni scientifici, azioni legali e attività di sensibilizzazione.
PFAS, processo Miteni: “Sentenza storica”
Esulta su Facebook l’attivista NO PFAS Alberto Peruffo: “Sentenza storica. Esemplare. Che dimostra che le grandi proprietà − specie le multinazionali − sono potenzialmente criminali e possono essere fermate. Ora dobbiamo rivolgere lo sguardo contro chi ha permesso tutto ciò”.
Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente parla invece di “sentenza storica e grande vittoria per il popolo inquinato. Dopo anni di denunce, vertenze e battaglie, portate avanti anche da Legambiente e dai suoi circoli, chi ha inquinato finalmente paga per aver avvelenato senza scrupoli il territorio veneto danneggiando non solo l’ambiente, ma anche la salute dei cittadini. Un grande lavoro, a partire dalla prima denuncia nel 2014 fatta dal Circolo Perla Blu di Cologna Veneta e dall’avvocato Enrico Varali coordinatore regionale del Centro di azione giuridica di Legambiente, che in questi anni si sono battuti, dentro e fuori le aule del tribunale, per ottenere ecogiustizia […]. Ora si proceda quanto prima alla bonifica del sedime inquinato, che ha provocato e continua a provocare una delle più estese contaminazioni acquifere con cui i cittadini veneti sono costretti a confrontarsi da decenni”.
Anche per Cristina Guarda, eurodeputata dei Verdi eletta nelle liste di Alleanza Verdi Sinistra (AVS) e già consigliera regionale in Veneto, si tratta di una sentenza storica che va oltre alle richieste dei PM e afferma come “da oggi, ha più forza la nostra richiesta per un divieto universale dei PFAS a livello europeo [...]. Rimane l'amarezza per il ritardo e le lacune con cui le istituzioni si sono occupate della contaminazione, il più grande caso di inquinamento da PFAS conosciuto al mondo. Da consigliera regionale, dal 2015 ho lottato per acqua priva di PFAS dai rubinetti, studi epidemiologici, campagne di informazione, supporto alle donne che vogliono avere figli, ricerche per la sicurezza del cibo e tecniche per la tutela delle coltivazioni. Non c'è stata la giusta attenzione, le nostre richieste sono sempre state trattate come quelle dei 'soliti ambientalisti' che si lamentano: avrei voluto politici impegnati come se fosse la loro acqua quella contaminata, ma non è stato così. Ora la battaglia prosegue in Europa, per la completa rimozione di queste sostanze dai beni di consumo, dalla produzione agricola e industriale," conclude l'eurodeputata.
PFAS-Miteni, una contaminazione tra le più gravi d’Europa
Il caso è emerso ufficialmente nel 2013, quando il Ministero dell’ambiente ha comunicato alla regione Veneto l’esito di uno studio commissionato proprio al CNR-IRSA. Da quell’indagine risultava la presenza di PFAS in concentrazioni “preoccupanti” nelle acque potabili di diversi comuni veneti. Nonostante una prima valutazione dell’Istituto superiore di sanità, datata 7 giugno 2013, che pur non ravvisava un “rischio immediato per la popolazione esposta”, la regione interveniva sollecitando i gestori degli acquedotti a installare filtri a carboni attivi per ridurre la contaminazione.
Da quel momento, è stata avviata una serie di misure urgenti per contenere il fenomeno come la chiusura dei pozzi risultati fortemente contaminati, l’incremento degli attingimenti da fonti ritenute più sicure, l’avvio di interventi di interconnessione locale tra le reti idriche e la predisposizione di piani di monitoraggio mirati sull’intero sistema di approvvigionamento idrico.
Si stima che oltre 300.000 persone abbiano vissuto e vivano tuttora in zone esposte ai PFAS, con conseguenze sanitarie ancora in fase di piena valutazione. Diversi studi, prodotti anche nell’ambito del processo, hanno evidenziato correlazioni tra l’esposizione prolungata a questi composti e l’insorgenza di disfunzioni ormonali, infertilità, tumori, malattie renali e cardiovascolari.
Un recente studio pubblicato sulla rivista Environmental Health ha stimato in 3.800 i decessi aggiuntivi per patologie cardiovascolari legate ai PFAS registrati in un arco temporale di 34 anni nella popolazione esposta. Il caso Miteni si colloca tra le più estese contaminazioni da PFAS a livello mondiale, tanto da attirare l’attenzione di organismi internazionali e media esteri, come ad esempio nel caso del Forever Pollution Project.
In copertina: Sora Shimazaki, Pexels