C’era attesa per un Decreto energia che tracciasse la rotta delle rinnovabili in Italia. È arrivato invece un provvedimento ibrido, il DL 175/2025, entrato in vigore il 22 novembre come “Misure urgenti in materia di Piano Transizione 5.0 e di produzione di energia da fonti rinnovabili”.
Un testo che ha raccolto le norme sulle aree idonee – originariamente previste nel DL Energia – e le ha accoppiate agli interventi su Transizione 5.0, creando un dispositivo normativo che ha lasciato più ombre che luci. Le aspettative erano ben diverse.
Si attendeva, per esempio, una norma energetica che affrontasse nodi cruciali come le emissioni di metano nel settore oil & gas, questione rimasta irrisolta nonostante l’urgenza segnalata dalle associazioni ambientaliste. Come aveva evidenziato Tommaso Franci di Amici della Terra al Forum CIG di Milano, era (ed è) urgente “la designazione delle autorità competenti per l’attuazione del regolamento UE sulle emissioni di metano, con scadenza già superata lo scorso febbraio”.
Invece di un decreto energetico organico, insomma, è arrivato (ed è già operativo) un provvedimento che si maschera da norma tecnica ma che in realtà ridisegna in profondità la governance delle rinnovabili, limitando il margine di manovra delle regioni e introducendo vincoli che rischiano di rallentare proprio quella transizione che si propone di accelerare.
Il nuovo perimetro delle aree idonee
Il cuore pulsante – e controverso – del decreto sta nell’articolo 2, che modifica il decreto legislativo 190/2024 (il cosiddetto Testo unico rinnovabili) e ridefinisce il perimetro minimo delle aree idonee per l’installazione di impianti da fonti rinnovabili. Un intervento reso necessario dopo le sentenze del TAR del Lazio sul decreto MASE del 21 giugno 2024, che avevano censurato l’eccessivo potere lasciato alle regioni nell’individuazione delle aree.
Il provvedimento fissa ora un elenco preciso di superfici sulla terraferma considerate automaticamente idonee: cave, discariche, aree industriali, siti nelle disponibilità di Ferrovie dello stato e delle società aeroportuali, beni del demanio militare. Sono incluse anche le superfici dove già esistono impianti rinnovabili e vengono realizzati interventi di modifica, purché non comportino una variazione dell’area superiore al 20%.
Per il fotovoltaico vengono specificate ulteriori aree idonee: quelle interne agli impianti industriali non agricoli sottoposti ad autorizzazione integrata ambientale, le aree agricole entro 350 metri dallo stabilimento industriale, le zone lungo la rete autostradale fino a 300 metri di distanza, gli invasi idrici. Il decreto pone limitazioni per il fotovoltaico a terra in zone agricole, ma prevede eccezioni significative: per i progetti legati alle comunità energetiche rinnovabili e per quelli attuativi delle misure PNRR. Ma, come vedremo, per le CER il momento non è comunque favorevole.
Gli impianti agrivoltaici restano sempre consentiti, purché i moduli siano posizionati in modo adeguatamente elevato da terra. Sul fronte offshore, vengono definite idonee le piattaforme petrolifere in disuso e le aree entro due miglia nautiche da esse, oltre ai porti per impianti eolici fino a 100 MW. Nelle zone di protezione dei siti UNESCO è permessa solo l’installazione di impianti in regime di attività libera.
Il decreto prevede che entro 60 giorni dall’entrata in vigore venga istituita una “piattaforma digitale per zone idonee e quelle di accelerazione”, che conterrà anche un contatore delle superfici agricole utilizzate. Include inoltre una tabella con la ripartizione regionale della potenza minima da installare per anno. Per gli impianti in aree idonee, il parere dell’autorità competente in materia paesaggistica diventa obbligatorio ma non vincolante, e i termini del procedimento di autorizzazione unica vengono ridotti di un terzo.
Il ruolo delle regioni
Ma è sul ruolo delle regioni che si gioca la vera partita politica. Il decreto concede loro 120 giorni dall’entrata in vigore per individuare ulteriori aree idonee oltre a quelle statali. Decorso questo termine, scattano i poteri sostitutivi dello stato. Non solo: vengono fissati paletti stringenti.
Le regioni non possono qualificare come idonee aree in una fascia di rispetto di tre chilometri per l’eolico e 500 metri per il fotovoltaico dai beni tutelati. Le superfici agricole utilizzabili devono oscillare tra lo 0,8% e il 3% delle superfici agricole utilizzate regionali. Un cambio di paradigma che ha suscitato reazioni immediate e forti da parte dei territori, Sardegna in primis.
La presidente della regione Sardegna, Alessandra Todde, non ha usato mezzi termini: “Un atto di forza che calpesta il ruolo delle regioni e ignora completamente la voce dei territori”, ha detto. La sua accusa è precisa: il Governo avrebbe evitato il confronto in Conferenza unificata, temendo un parere negativo, e avrebbe scelto la scorciatoia del decreto legge, violando il principio di leale collaborazione.
Per Todde, il decreto rende inefficaci tutte le leggi regionali sulle aree idonee e non idonee, imponendo che le autorizzazioni si basino esclusivamente sulla normativa statale. “Sarà Roma a stabilire cosa è idoneo, arrivando perfino a considerare idonei i porti per l’eolico offshore”, ha dichiarato la presidente. Particolarmente grave, secondo Todde, la previsione che consente di installare impianti sotto 1 MW anche nelle zone di protezione UNESCO.
La polemica si estende anche alla questione delle aree militari. La proposta di utilizzarle per la produzione di energia rinnovabile – che aveva suscitato critiche quando ventilata dalla regione stessa – ora compare nero su bianco nel decreto. Per Todde si tratta di un’ingiustizia che mette a rischio il diritto della Sardegna di richiedere la restituzione delle aree non utilizzate ai fini militari. La regione ha annunciato il ricorso alla Corte Costituzionale per difendere le proprie prerogative e lo statuto speciale.
Ma non è solo la Sardegna a mostrare preoccupazione. Anche l’Umbria, attraverso l’assessore all'ambiente Thomas De Luca, ha contestato il decreto, in particolare la norma che impedisce alle regioni di individuare aree idonee entro 500 metri dai beni tutelati. Una disposizione che, secondo l’assessore umbro, cancella l’innovazione introdotta dalla legge regionale sull’energia, che garantiva la qualifica di area idonea a ogni progetto destinato alle CER.
Una doccia fredda per le comunità energetiche
Se il tema delle aree idonee ha acceso il dibattito istituzionale, il capitolo delle comunità energetiche rinnovabili ha provocato un terremoto nel settore. Il 21 novembre, con un post su LinkedIn, il presidente del GSE Paolo Arrigoni ha rilanciato un comunicato del MASE che annunciava la rimodulazione drastica della dotazione finanziaria per le CER: da 2,2 miliardi di euro a 795,5 milioni. Un taglio del 64%.
Il meccanismo è complesso ma le conseguenze sono immediate. La sesta revisione del PNRR, già valutata positivamente dalla Commissione europea, ha infatti ridimensionato l’investimento sulle CER a causa della difficoltà di rispettare la scadenza del 30 giugno 2026. Al 20 novembre le richieste ammontavano a 778 milioni per una potenza di circa 1.778 MW, superando la milestone di 1.730 MW prevista dal piano. Il target, quindi, è formalmente raggiunto, ma il risultato pratico è devastante per migliaia di progetti che avevano fatto affidamento sui fondi annunciati.
Come ha ricostruito Punto CER, il settore si trova stretto tra promesse disattese e una gestione confusa della misura: “Il paradosso sta tutto nei numeri: ci sono pratiche approvate a febbraio, con contratto firmato e tutto in regola, ma i soldi non arrivano. Il motivo tecnico? Non esiste ancora il portale per erogarli. A dieci giorni dalla scadenza del bando, fissata al 30 novembre, non è uscito un decreto ministeriale ma un post social che annuncia il taglio dei fondi. Le regole cambiano quando la partita è già finita, bruciando i business plan di migliaia di aziende che avevano investito in personale, formazione e strutture dedicate.”
Giovanni Montagnani, presidente della CER Vergante Rinnovabile, ha così descritto il cortocircuito: “Il PNRR doveva finanziare la transizione. Oggi sta creando debiti alle imprese e pericoli per gli operai, bloccato da un software che non c’è e da comunicazioni via social”.
I rischi per i lavoratori aumentano perché la scadenza per i lavori resta ferrea a giugno 2026, ma i mesi persi dall’amministrazione per valutare le pratiche diventano tempo sottratto ai cantieri. Per rispettare i tempi, gli installatori dovranno correre, e questo non è mai un bene. Vittorio Marletto di Energia per l’Italia ha sottolineato come le CER non siano solo impianti ma un motore economico che crea lavoro, innovazione e valore nei territori: “Ridurre oggi le risorse significa frenare investimenti, rallentare progetti già avviati e minare la fiducia di imprese e comunità che hanno creduto in questo percorso. La transizione non può essere costruita a colpi di continue inversioni di percorso”.
Il MASE ha precisato che i progetti valutati positivamente ma non finanziabili per esaurimento delle risorse saranno considerati idonei per eventuali scorrimenti o integrazioni finanziarie future. Una magra consolazione per chi aveva pianificato investimenti su basi ben diverse. La somma degli importi concessi costituirà il target da conseguire entro giugno 2026, ma resta il fatto che la dotazione è stata ridotta retroattivamente, quando molti operatori avevano già sostenuto costi e impegnato risorse.
Decreto energia, cosa succede adesso
Al momento, comunque, il decreto è stato trasmesso al Senato per la conversione in legge (AS 1718) ed è stato discusso in Commissione ambiente oggi, 25 novembre. Nei prossimi mesi si capirà se il Parlamento sarà in grado di correggere gli aspetti più controversi o se questo provvedimento segnerà una battuta d’arresto nella strada verso un sistema energetico più distribuito e partecipato.
Tra norme tecniche che diventano scelte politiche e tagli retroattivi che minano la fiducia, il rischio è che l’Italia arrivi agli obiettivi climatici del 2030 con un sistema energetico sì più rinnovabile, ma meno democratico e meno radicato nei territori.
In copertina: Gilberto Pichetto Fratin, foto di IAEA via Flickr
