Il 21 luglio 2025, mentre l'estate brucia l'Europa meridionale con temperature record, la Corte di Cassazione ha pubblicato la sentenza n. 20381/2025 che ha tutto il potenziale per far tremare le multinazionali fossili: le Sezioni Unite hanno dichiarato definitivamente ammissibili le cause climatiche contro le aziende private. Una decisione che spezza decenni di immunità giudiziaria e trasforma l'Italia da fanalino di coda a modello europeo per il climate litigation.
E lo ha stabilito riferendosi al ricorso di Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini che nei mesi scorsi chiedevano se in Italia fosse possibile o meno avere giustizia climatica nell’ambito di una causa civile nei confronti di ENI, di Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e Ministero dell’economia e delle finanze (MEF) − questi ultimi due enti in qualità di azionisti che esercitano un’influenza dominante su ENI − per i danni subìti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici.
L'Italia colma così un gap che la vedeva in ritardo rispetto a Paesi Bassi, Germania e Francia, dove i tribunali già decidono su responsabilità climatiche di stati e multinazionali. “Nessuno, nemmeno un colosso come ENI, può più sottrarsi alle proprie responsabilità”, commentano a caldo le organizzazioni ricorrenti nel loro comunicato stampa. “I giudici potranno finalmente esaminare il merito della nostra causa: chi inquina e contribuisce alla crisi climatica deve rispondere delle proprie azioni.”
Dal fronte opposto, ENI in serata dirama una nota precisando di esprimere "la propria grande soddisfazione in merito alla decisione della Cassazione. Finalmente si potrà riprendere il dibattimento innanzi al Tribunale di Roma dove saranno smontati i teoremi infondati di Greenpeace e ReCommon sulle fantasiose responsabilità per danni attribuibili a ENI relativi ai temi del cambiamento climatico, in un contesto rigoroso e rispettoso della legge e non a fronte degli slogan strumentali, infondati e spesso mendaci delle due associazioni". Tra l'altro però proprio ENI aveva espresso perplessità rispetto a questa precisa scelta legale da parte delle associazioni.
La lunga strada verso il palazzo di giustizia
Tutto inizia il 9 maggio 2023, quando Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadini “residenti in aree del territorio nazionale particolarmente esposte al cambiamento climatico” depositano presso il Tribunale di Roma un atto di citazione da manuale. ENI, Cassa Depositi e Prestiti e Ministero dell'economia vengono chiamati a rispondere per 419 milioni di tonnellate di CO₂ emesse nel solo 2022. Il documento, primo del genere in Italia contro un'azienda privata, non si limita a denunciare: chiede azioni concrete come la riduzione del 45% delle emissioni entro il 2030, il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali per gli effetti del cambiamento climatico, una policy operativa per gli azionisti pubblici su obiettivi climatici.
Una strategia che replica il successo ottenuto nei Paesi Bassi, dove nel maggio 2021 Milieudefensie e Greenpeace avevano trascinato Shell davanti ai tribunali, ottenendo una condanna storica. La risposta di ENI arriva puntuale: “Difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario adito”. In sostanza, nessun tribunale italiano può decidere su questi temi. Una strategia processuale già vista oltreoceano, mutuata dal caso statunitense dove le oil company hanno sviluppato sofisticate tecniche di "forum shopping", cioè la pratica di scegliere il foro giuridico (cioè la giurisdizione o il tribunale) più favorevole per intentare una causa legata ai cambiamenti climatici e quindi per evitare processi scomodi.
CDP e MEF si accodano alla strategia. Il messaggio è chiaro: il cambiamento climatico non si affronta in tribunale, ma nelle sedi politiche. Una linea che riecheggia gli argomenti usati da ExxonMobil e Chevron nei contenziosi USA: le questioni climatiche sono "political questions" estranee al controllo giudiziario.
Il colpo più duro per gli ambientalisti arriva nel febbraio 2024, quando il Tribunale di Roma affossa "Giudizio Universale", la prima causa climatica italiana contro lo stato. Il motivo è sempre lo stesso: "Difetto assoluto di giurisdizione". La giudice Canonaco sentenzia che manca nell'ordinamento “una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l'interesse dedotto in giudizio”. Per gli ambientalisti è una doccia fredda che risuona come una condanna a morte per tutto il climate litigation italiano. “Il rischio concreto era che la stessa logica si applicasse anche alle aziende private”, spiega Antonio Tricarico di ReCommon. L'Italia rischiava di diventare un paradiso giuridico per i grandi inquinatori, l'unico paese europeo dove multinazionali fossili potessero operare senza timore di cause climatiche.
Il blitz preventivo alla cassazione
Di fronte al rischio di un bis di "Giudizio Universale", Greenpeace e ReCommon giocano d'anticipo nel giugno 2024: ricorso per regolamento di giurisdizione alle Sezioni Unite. Una mossa processuale che ENI definisce subito “iniziativa finalizzata ad allungare i tempi” e a ottenere “la sospensione della causa avviata dalle organizzazioni”.
“La nostra richiesta potenzialmente accorcia i tempi”, replica Simona Abbate, campaigner clima ed energia di Greenpeace Italia. “È invece ENI ad aver richiesto il difetto assoluto di giurisdizione, facendo riferimento a una pronuncia che riguardava lo stato e non un'azienda privata.”
Il dibattito si sposta sul timing: chi sta davvero prendendo tempo? Le organizzazioni sostengono di voler evitare un pericoloso precedente, ENI accusa di tatticismo processuale.
Intanto, il 9 aprile 2024, la Grande Camera della Corte europea dei diritti umani emette una sentenza destinata a fare scuola. Le "Anziane svizzere per il clima" vincono contro la Svizzera per inadempienza climatica, stabilendo un principio rivoluzionario: il diritto alla vita e al rispetto della vita privata e familiare include il diritto degli individui a una protezione efficace contro i gravi effetti del cambiamento climatico.
La sentenza Verein KlimaSENIorinnen Schweiz c. Suisse afferma la “complementarità dell'intervento giudiziario rispetto ai processi democratici”, stabilendo che il compito della magistratura consiste nel “garantire il rispetto dei requisiti legali” anche in materia climatica. “Stabilire che un giudice non possa decidere si pone in netto contrasto con questa sentenza”, argomentano i ricorrenti. L'Europa si muove verso il riconoscimento dei "diritti climatici", l'Italia rischia di restare indietro.
Arriva così il 18 febbraio 2025, giorno dell'udienza che vale un'epoca. Palazzo di Giustizia, camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili. Nove giudici guidati dal primo presidente Ettore Cirillo si riuniscono per decidere il futuro del climate litigation italiano. Niente pubblico, solo toga e codici per una delle udienze più importanti dell'anno giudiziario. Le argomentazioni si concentrano su tre nodi cruciali: l'invasione della sfera politica, la giurisdizione territoriale per emissioni prodotte all'estero, la giustiziabilità dei cosiddetti "diritti climatici".
E arriviamo al 21 luglio 2025, nel tardo pomeriggio, quando giungono le 24 pagine di motivazioni che faranno giurisprudenza per i prossimi decenni. La Cassazione, con la sistematicità che contraddistingue le Sezioni Unite, smonta uno per uno gli argomenti di ENI. Sul "difetto di giurisdizione", i giudici chiariscono che “non può essere fatto valere il difetto di giustiziabilità della pretesa azionata, che [...] non dà luogo a una questione di giurisdizione, proponibile con lo strumento di cui all'art. 41 cod. proc. civ., ma ad una questione di merito”. Non si tratta di invasione della sfera politica, ma di “comune azione risarcitoria”.
Sulla giurisdizione territoriale, la Corte stabilisce che i giudici italiani sono competenti anche per emissioni estere perché “il danno si è certamente concretizzato in Italia, indipendentemente dalla circostanza che l’evento generatore si sia verificato all’estero” e perché “le decisioni strategiche che contribuiscono all’emergenza climatica […] sono adottate dichiaratamente dalla capogruppo” che ha sede in Italia.
La rivoluzione silente: perché cambia tutto
“Da oggi nessuno, nemmeno un colosso come ENI, può più sottrarsi alle proprie responsabilità.” Non è retorica da comunicato stampa: la sentenza stabilisce definitivamente che le aziende fossili possono essere citate per danni climatici davanti ai tribunali italiani. Una novità assoluta che rompe decenni di immunità de facto. La Cassazione chiarisce che la tutela dei diritti umani fondamentali minacciati dall'emergenza climatica “è superiore a ogni altra prerogativa” e che “da oggi sarà possibile avere giustizia climatica anche nei tribunali italiani”.
“Grazie alla presente azione e alla decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite l'Italia si allinea agli altri paesi più evoluti in cui il clima e i diritti umani trovano una tutela giurisdizionale”, celebrano Greenpeace e ReCommon.
L'elemento più innovativo della sentenza è l'accettazione della "teoria della corporate personhood" sviluppata dall'attribution science. Le multinazionali non possono nascondersi dietro la frammentazione societaria se la capogruppo mantiene il controllo strategico. La Corte stabilisce che “il ruolo strategico della capogruppo nella definizione delle politiche per l'intero gruppo comporta la sua responsabilità per le emissioni a effetto serra complessive delle sue attività e dei suoi prodotti”. Un precedente che darà molto lavoro ai legal department delle major energetiche, costrette a rivedere le proprie strutture di governance internazionale.
I rischi scongiurati: uno scenario da incubo evitato
Cosa sarebbe successo con un verdetto opposto? L'Italia come rifugio giuridico per le multinazionali fossili. Mentre Shell affrontava i tribunali olandesi e TotalEnergies quelli francesi, ENI avrebbe goduto di impunità assoluta nel proprio paese d'origine. Uno scenario paradossale: l'azienda italiana più internazionale protetta da vuoti normativi nazionali, libera di perseguire strategie fossili senza timore di conseguenze legali. Un vantaggio competitivo perverso che avrebbe attirato altre multinazionali alla ricerca di "safe harbor" giurisdizionali.
Le conseguenze sarebbero andate oltre il caso ENI: impossibilità per qualsiasi cittadino o associazione di citare aziende per danni climatici, creando un deficit democratico in contrasto con i princìpi costituzionali di tutela ambientale introdotti nel 2022.
L'Italia avrebbe inoltre violato il "duty to protect" sui diritti umani sancito dalla giurisprudenza CEDU. La sentenza sulle "Anziane svizzere" stabilisce che gli stati devono garantire accesso alla giustizia per danni climatici. Un'eventuale bocciatura avrebbe esposto il paese a procedure d'infrazione europea e ricorsi internazionali.
La battaglia è appena iniziata
Il primo effetto immediato è il ritorno del caso al Tribunale di Roma per entrare nel merito. “Greenpeace Italia e ReCommon attendono ora che il giudice ordinario a cui spetta tornare a decidere su ‘La Giusta Causa’ superi ogni altra eccezione preliminare ed entri finalmente nel merito.” Il Tribunale dovrà ora pronunciarsi sull'accertamento dell'inottemperanza di ENI agli obiettivi dell'Accordo di Parigi, sulla quantificazione dei danni da cambiamento climatico e sull'imposizione di target di riduzione delle emissioni. La timeline stimata prevede una decisione di primo grado entro il 2026, considerando la complessità tecnica e l'expertise scientifico richiesto sui nessi causali emissioni-danni. Ma l'effetto catalizzatore è già annunciato.
I target probabili sono già nel mirino degli studi legali specializzati: altre major petrolifere come TotalEnergies, BP e Shell per le loro attività italiane; settori ad alta intensità carbonica come ArcelorMittal per l'acciaio di Taranto, Italcementi per il cemento; la finanza fossile con UniCredit e Intesa Sanpaolo per i finanziamenti a progetti oil&gas, seguendo il modello delle cause contro ING e Deutsche Bank in altri paesi europei.
La prossima frontiera sarà la definizione degli standard europei di responsabilità climatica. Quali emissioni contano? Quale percentuale minima di contributo al cambiamento climatico? Criteri di proporzionalità nel calcolo dei danni? Soglie temporali per il nesso causale?
Nella visione di lungo termine, il climate litigation emerge come terzo pilastro della transizione ecologica europea. Dopo la regolamentazione pubblica del Green Deal e gli incentivi di mercato del PNRR, arriva la pressure giudiziaria dal basso. Un ecosistema integrato dove cittadini, ONG e investitori responsabili usano i tribunali per accelerare il cambiamento che la politica non riesce a imporre o che il mercato adotta troppo lentamente. Il modello californiano, dove cause giudiziarie e regolamentazione hanno spinto l'innovazione automobilistica, sbarca ufficialmente in Europa.
Da oggi l'emergenza climatica entra nei tribunali italiani. E per le aziende fossili, come per i bilanci europei, la battaglia è appena iniziata. La differenza è che stavolta i cittadini hanno le armi legali per combatterla.
Leggi anche: Contenzioso climatico, cosa aspettarsi nel 2025
In copertina: la sede della Corte di Cassazione fotografata da Jorge Franganillo via Wikimedia Commons