Il destino della ex ILVA, in teoria in vendita alla società azera Baku Steel, è legato a un filo. Un incidente catastrofico che non ha causato morti per miracolo, un altoforno sequestrato dalla magistratura, un duello (il solito) tra governo e magistratura in cui una delle due parti in causa mente, migliaia di lavoratori in cassa integrazione.

Non si sa come sta andando il confronto tra i commissari straordinari delle Acciaierie d’Italia − Giancarlo Quaranta, Giovanni Fiori e Davide Tabarelli − e il vertice del gruppo azero, sulle cui possibilità si hanno pochissime notizie. Non si sa che tipo di garanzie occupazionali e produttive verrebbero messe in campo. Non si sa se ci sarà posto per gli indiani di Jindal Steel, che avevano fatto un’offerta considerata di livello inferiore. Non si sa se lo stato italiano entrerà nel discorso, magari con una partecipazione del 10% attraverso Invitalia.

Ma il tempo vola, e non è affatto detto che il negoziato vada in porto entro giugno. Per quella data le risorse ora a disposizione di Acciaierie d’Italia si esauriranno: l’azienda perde più di un milione di euro al giorno.

L’incendio all’altoforno dell’ex ILVA

Gli ultimi sviluppi di questa incredibile storia: il 7 maggio scorso un grave incendio ha danneggiato in modo significativo l’Altoforno 1 (Afo1) dello stabilimento di Taranto, e poteva essere una strage di operai. Inevitabile la decisione della magistratura tarantina di porre l’impianto sotto sequestro senza possibilità di utilizzo, mentre l’azienda cercava di ridimensionare l’accaduto.

“Verosimilmente l’impianto è del tutto compromesso”, aveva detto subito il ministro dell’industria Adolfo Urso, affermando che si erano perse (per colpa della Procura) 48 ore decisive per intervenire e ripristinare l’attività dell’impianto. La Procura ha risposto per le rime, dicendo che “tutte le attività finalizzate alla salvaguardia della salute e della sicurezza dei lavoratori sono state autorizzate”, e che è semmai l’azienda (sotto gestione commissariale) a non aver avanzato l’istanza necessaria per far ripartire l’impianto.

Fatto sta che il blocco dell’Afo1 ha comportato un drastico ridimensionamento della capacità produttiva dell’impianto, con conseguenze immediate: martedì 13 maggio Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria − nella persona del direttore generale Maurizio Saitta, peraltro indagato dalla magistratura insieme ad altri due dirigenti dell’azienda − ha comunicato ai sindacati la richiesta di cassa integrazione per 4.046 lavoratori, di cui 3.538 nello stabilimento di Taranto.

Un disastro, anche perché sarebbero in corso le trattative per la vendita dello stabilimento agli azeri di Baku Steel. Le organizzazioni sindacali hanno reagito con fermezza. La FIOM CGIL, attraverso il coordinatore della siderurgia Loris Scarpa, ha dichiarato che "non accetterà percorsi di cassa integrazione senza alcuna chiarezza sulle prospettive future dell'ex ILVA".

Il segretario generale della UILM, Rocco Palombella, ha denunciato la critica situazione economica dell'azienda, con risorse insufficienti per la manutenzione e finanziamenti in via di esaurimento, e ha chiesto di "nazionalizzare, avviare il processo di decarbonizzazione e, solo dopo, mettere l'azienda sul mercato". Palombella ha anche espresso dubbi sulla trattativa con Baku Steel: "Ci hanno sempre detto che la trattativa è a buon punto, ma non ci crediamo. Alcuni elementi ci portano a ritenere che la trattativa vada male e che difficilmente produrrà risultati convincenti".

Le trattative con Baku Steel

Oggi, mercoledì 14 maggio, il ministro Urso intervistato dal Sole 24 Ore ha detto che è stato finalizzato il passaggio per sbloccare i 100 milioni di euro destinati all'integrazione del prestito ponte, risorse che dovrebbero assicurare continuità produttiva e stabilità operativa da qui alla cessione dell'azienda. E soprattutto ha ribadito che il governo intende proseguire con la trattativa con Baku Steel.

Una delegazione del MIMIT è stata in Azerbaigian, avrebbe avuto "interlocuzioni molto costruttive" con gli azeri, che avrebbero confermato "la volontà di portare avanti il percorso di acquisizione". Nel frattempo, il ministro ha annunciato che verranno accelerati "i lavori per far ripartire l'Afo2 che potrebbe affiancarsi, in qualche mese, all'Afo4", nel tentativo di mitigare le conseguenze dell'incidente.

Vero è che la cessione potrebbe non concludersi, per quello che ne sappiamo. Il contesto economico e geopolitico è pessimo, con un eccesso di capacità produttiva della siderurgia e le guerre commerciali a colpi di dazi. Resta più che mai irrisolta la questione della compatibilità ambientale dell’acciaieria con la città di Taranto. La popolazione e il territorio hanno già duramente pagato un prezzo di morte, con malattie e decessi legati all’inquinamento dell’ex ILVA. Per non parlare degli aspetti paesaggistici: l’acciaieria è immensa, occupa un lungo tratto di costa, e il golfo dovrà accogliere anche un rigassificatore.

A suo tempo i commissari e il ministro dell’industria Adolfo Urso hanno valutato la migliore proposta per l’acquisizione del centro siderurgico di Taranto: quella della compagnia azera Baku Steel Company con la holding statale Azerbaijan Investment Company, fondo sovrano controllato dal ministero dell’economia del paese caucasico.

L’offerta prevede un investimento di 1,1 miliardi di euro, di cui 500 milioni per il magazzino. Questo significa che l’intera immensa acciaieria, per la quale lo stato italiano nel corso dei decenni ha investito una montagna di miliardi, è valutata solo 600 milioni. Sono promessi investimenti per 4 miliardi in cinque anni, tra cui un rigassificatore galleggiante per portare dall’Azerbaigian il gas che serve allo stabilimento. Nella proposta, gli occupati ex ILVA scenderebbero a circa 7.800. A regime si prevede di lasciare attivi un altoforno e due forni elettrici, che diventeranno tre dopo la chiusura dell’altoforno. La produzione futura sarebbe di 6 milioni di tonnellate di acciaio.

Il futuro dell’ex ILVA

L’impianto siderurgico di Taranto è stato a lungo il più grande d’Europa, con una capacità produttiva teorica superiore a 8 milioni di tonnellate annue di acciaio. Oggi gli impianti funzionano a regime ridotto: nel 2023 la produzione è stata di 3 milioni, nel 2024 scesa a 2, e sono attivi due altiforni su quattro. Il gruppo conta circa 10.500 lavoratori diretti, di cui circa 8.000 a Taranto, e migliaia di addetti dell’indotto, tra trasporti, logistica e manutenzione. Si stima che oltre 20.000 posti di lavoro dipendano dal futuro dell’acciaieria. Dal 2018, anno dell’ingresso (fallimentare) di ArcelorMittal, lo stato ha investito circa 2 miliardi di euro tra prestiti, ricapitalizzazioni e supporto d’emergenza. Altri fondi saranno necessari, indipendentemente dal destino della cessione.

Si sa ben poco di Baku Steel, una realtà industriale relativamente piccola, con duemila dipendenti. Ha una capacità produttiva di 800.000 tonnellate di acciaio l’anno, soprattutto per edilizia, petrolio e gas, ma secondo i dati di World Steel Association nel 2024 l’Azerbaigian ha prodotto in tutto solo 350.000 tonnellate. Il direttore generale è Kamal Ibrahimov. Baku Steel è totalmente legata al governo azero e al presidente (sempre rieletto, in un modo o nell’altro) Ilham Aliyev. Suo padre e predecessore, Heydar Aliyev, aveva voluto e inaugurato la fabbrica nel 2001.

L’azienda è al centro di progetti industriali e infrastrutturali nel Nagorno Karabakh, riconquistato all’Armenia con la guerra lampo del 2023. È il principale operatore della regione, e che dispone di impianti di ultima generazione come tecnologie innovative di fusione e colata continua e forni elettrici. Ha anche ampie riserve di gas. Con l’operazione Taranto, acquisterebbe un profilo globale più credibile.

Eppure non c’erano grandi alternative. Le altre offerte erano peggiori o prevedevano uno spezzatino dell’azienda. Non si sono mai presentate alternative più solide o “europee”. La siderurgia vive un drammatico eccesso di capacità produttiva, ogni fabbrica che chiude è una buona notizia per chi resta. La ex ILVA è appesantita anche dall’incertezza dell’Autorizzazione integrata ambientale (AIA), indispensabile per far funzionare la fabbrica legalmente e senza danni per la popolazione.

L’AIA arriverà? Si può chiudere l’affare senza garanzie? A giugno termineranno le risorse pubbliche che stanno tenendo (a fatica) in piedi l’azienda. Se entro quella data non si chiude, lo scenario potrebbe diventare critico. I sindacati dicono che il governo dovrà intervenire con nuovi fondi per evitare la paralisi. O peggio.

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In copertina: veduta dell’Ilva da una finestra di via Regina Margherita a Taranto il 25 dicembre 2007, foto di Mafe De Baggis via Flickr