Circa metà dell’ossigeno che respiriamo proviene dagli oceani, che restano inoltre il principale regolatore del clima del pianeta. Ogni anno, i mari assorbono infatti il 30% di tutta la CO₂ emessa e trattengono oltre il 90% del calore in eccesso prodotto da queste emissioni.
Proprio per questo ruolo fondamentale, a pochi giorni dalla chiusura della terza Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano (UNOC3), può essere utile riflettere su una nuova frontiera tecnologica: lo stoccaggio di CO₂ in ambiente marino, che può avvenire sotto i fondali o direttamente nelle acque. Soluzioni tra loro diverse, più o meno recenti, che si affiancano ai processi naturali attirando investimenti e non poche aspettative. Ma su cui resta ancora molta strada da fare.
Stoccaggio di CO₂ in mare: i metodi “tradizionali”
La filiera della CO₂ si articola in tre fasi principali, cioè cattura, trasporto e stoccaggio. L’intero processo è indicato con l’acronimo CCS (Carbon Capture and Storage), e riguarda in particolare la cattura della CO₂ proveniente da fonti industriali, soprattutto nei settori hard to abate come impianti siderurgici, chimici o centrali termoelettriche. Alla fase di cattura segue il trasporto, spesso effettuato attraverso pipeline, ovvero tubazioni che convogliano la CO₂ verso i siti di stoccaggio.
Esistono diversi metodi per il confinamento geologico della CO₂. Oltre ai giacimenti esauriti di idrocarburi, una possibilità è la mineralizzazione in rocce ultramafiche, come i basalti. In questo caso, la CO₂ reagisce con i minerali presenti nelle rocce trasformandosi in carbonati stabili. Anche questa è considerata una forma di stoccaggio, capace di trattenere la CO₂ per tempi lunghissimi, potenzialmente su scala geologica.
Stoccaggio geologico e mineralizzazione. Quali incertezze?
“[Il settore Oil&Gas, nda] vuole utilizzare i giacimenti di petrolio e gas esauriti perché ritiene di conoscerli meglio, grazie all'ingegneria dei giacimenti coinvolta nell'estrazione”, spiega a Materia Rinnovabile Grant Hauber, Strategic Energy Finance Advisor Asia presso l’Institute For Energy Economics And Financial Analysis (IEEFA). “Il problema, tuttavia, è che non vi è certezza sul numero di perforazioni effettuate in tali giacimenti, sul tipo di rivestimenti dei pozzi presenti su tali perforazioni e su come gestire il rischio di perdite dovuto a queste incognite. Finora, l'approccio preferito è stato quello di perforare nuovi pozzi appositamente costruiti per lo smaltimento di CO₂. Ad esempio, il programma del Regno Unito per lo stoccaggio della CO₂ nei giacimenti esauriti del Mare del Nord prevede nuovi pozzi solo per garantire il funzionamento del sistema. I piani di espansione seguiranno in un secondo momento.”
In una sua analisi risalente al 2023, Hauber evidenzia come i sostenitori del CCS citino principalmente i progetti norvegesi Sleipner (attivo dal 1996) e Snøhvit (attivo dal 2008) come esempi di successo, con oltre 22 milioni di tonnellate di CO₂ stoccate e una media di 1,8 milioni di tonnellate all’anno. Nel mondo circa 200 progetti CCS offshore mirano a sequestrare centinaia di milioni di tonnellate di CO₂ ogni anno, con investimenti per centinaia di miliardi di dollari.
Leggi anche: Catturare la CO₂ è necessario per il clima o per le aziende fossili?
“La maggior parte dei dati sulle prestazioni reali proviene da progetti norvegesi, poiché i norvegesi sono stati molto aperti nel condividere i loro risultati. In particolare, Sleipner è diventato una sorta di caso di studio, ampiamente utilizzato in ambito accademico”, aggiunge Hauber. “Forniscono alle università dati dettagliati su come è stata effettuata l'iniezione, come viene modellata e come sta procedendo. Tuttavia, rimane ancora molta incertezza.”
Le incognite riguarderebbero anche la mineralizzazione, che avviene con velocità diverse, dipendendo interamente dalla specifica formazione geologica nel sito di iniezione. “In alcuni casi, il processo può iniziare nel giro di pochi anni; in altri, potrebbero volerci secoli. Dipende davvero dalla ‘fortuna geologica’ del luogo in cui ci si trova. Naturalmente, geofisici, ingegneri e specialisti di giacimenti si affidano ai dati sismici e poi li convalidano con campioni di carotaggio e test di laboratorio per identificare i siti più adatti. Detto questo, non possiamo interrompere la ricerca. Dobbiamo costruire un ampio arsenale di soluzioni diverse. Tuttavia, l’attuazione di queste tecnologie deve essere prioritizzata in base a dove si registrano le emissioni maggiori e dove si sono verificati i danni più gravi. Le risorse finanziarie, l'interesse delle aziende e l'impegno pubblico sono limitati.”
Stoccare la CO₂ direttamente nell’acqua del mare
Inizia a farsi spazio una terza via per la rimozione e lo stoccaggio di CO2 in ambiente marino, non sotto i fondali, ma direttamente in mare sotto forma di bicarbonati di calcio. “Questo materiale esiste negli oceani in quantità astronomiche, si parla di oltre 100.000 miliardi di tonnellate di bicarbonati”, chiarisce Stefano Cappello, CEO & Founder della start-up italiana Limenet. “L’idea è quindi quella di aumentare leggermente questa concentrazione per permettere al mare di stoccare più CO₂. E sottolineo: stoccare, non catturare. Ci sono anche aziende che stanno lavorando su tecnologie per estrarre la CO₂ già disciolta nell’acqua marina, ma quello è un altro discorso.”
A differenza dello stoccaggio geologico, che esiste da decenni ma è stato usato soprattutto per estrarre più petrolio iniettando CO₂ nei giacimenti, la tecnologia di Limenet punta da subito a uno stoccaggio permanente. Mentre il CCS tradizionale richiede infrastrutture complesse, perché la CO₂ va catturata, trasportata per lunghe distanze e poi stoccata sottoterra, gli impianti modulari di Limenet, invece, operano direttamente sulla costa, riducendo le barriere logistiche.
Limenet non è però l’unica società nel mondo a sviluppare questo tipo di tecnologia. “A oggi in totale siamo in undici. Ci sono ad esempio Equatic a Singapore, la californiana Captura, la canadese Planetary Technologies e la tedesca Planeteers. Tra questi c’è chi ha ancora un'idea embrionale a chi come noi ha già un impianto funzionante”, aggiunge Cappello.
Secondo quanto dichiarato da Limenet, l’impianto inaugurato a settembre 2024 ad Augusta, in Sicilia, è attualmente il più grande al mondo per capacità di stoccaggio di CO₂ in ambiente marino, con una trasformazione di 100 kg all’ora in bicarbonati di calcio.
Il progetto segna un salto di scala significativo rispetto al primo impianto pilota avviato a La Spezia nel 2023, superato di cento volte in termini di dimensioni. La tecnologia sviluppata da Limenet richiede circa un metro cubo di carbonato di calcio per ogni tonnellata di CO₂ rimossa. Secondo quanto spiegato da Cappello, nella fase iniziale il processo non fa uso di nuova roccia, ma impiega scarti dell’industria della calce. Per la quantità di materiale oggi a disposizione, tale fonte può essere sfruttata fino al raggiungimento di una larga scala industriale, nell’ordine di gigatonnellate di CO2.
Il caso studio Limenet
L’8 giugno 2025, in occasione della Giornata mondiale degli oceani, la startup ha presentato i primi risultati di due studi scientifici sull’impatto ambientale della propria tecnologia per la rimozione della CO₂ e il suo stoccaggio in mare tramite un processo chimico naturale.
Il primo studio, condotto a La Spezia con l’Università di Milano-Bicocca, ha analizzato gli effetti della soluzione di bicarbonati sull’acqua marina, rilevando benefici potenziali per la stabilità e la resilienza del fitoplancton, soprattutto in ambienti portuali, con effetti positivi sul sequestro del carbonio e sulla mitigazione dell’acidificazione.
Il secondo studio, realizzato presso l’impianto operativo di Augusta con il CNR-IRBIM di Messina, ha valutato la eco-tossicità a breve termine dell’acqua prodotta dal processo Limenet. I risultati preliminari indicano assenza di effetti negativi sugli organismi marini analizzati.
“Per quanto riguarda l’energia necessaria oggi, nella fase prototipale, siamo attorno ai due megawatt e mezzo per tonnellata di CO₂ catturata, trasportata e stoccata. È un valore alto, ma comprensibile in questa fase”, spiega Cappello. “L’energia deve provenire dalla rete elettrica tramite contratti che garantiscano l’uso di fonti rinnovabili, oppure si può pensare a parchi fotovoltaici, eolici o − un domani − anche piccoli reattori nucleari. L’importante è che si tratti di energia low carbon. Insieme al Politecnico di Milano, abbiamo condotto inoltre un’analisi del ciclo di vita. Le inefficienze sono attorno al 10%, e variano dal 5 al 15% a seconda del contesto. Questo significa che, per ogni 100 chilogrammi di CO₂ rimossa, si generano al massimo 10 chilogrammi di emissioni. E parliamo di un bilancio che include anche la produzione e il fine vita dei pannelli fotovoltaici e delle pale eoliche.”
Leggi anche: Stoccaggio della CO₂ a Ravenna: ecco come funzionerà il deposito di ENI
In copertina: immagine Envato