da Nizza - La terza Conferenza delle Nazioni Unite sull'oceano (UNOC3) si è conclusa venerdì 13 giugno a Nizza, in Francia. L'obiettivo della conferenza era accelerare l'azione per raggiungere l'Obiettivo di sviluppo sostenibile 14, Vita sottomarina. Nonostante alcuni annunci incoraggianti di impegni volontari da parte di alcuni stati membri, nel complesso gli osservatori giudicano la conferenza come deludente a causa della mancanza di azioni concrete riflesse nel Nice Ocean Action Plan, la dichiarazione politica comune firmata dai governi, che rappresenta un’occasione mancata per proteggere l’oceano.

Secondo gli esperti del Center for International Environmental Law, CIEL, “la dichiarazione politica di Nizza non contiene gli impegni necessari per proteggere l'oceano, la biodiversità e il clima dalla loro più grande minaccia: i combustibili fossili. Arrestare l'espansione del petrolio e del gas, soprattutto offshore, e ridurre rapidamente ed equamente la produzione e l'uso di combustibili fossili deve essere al centro di qualsiasi azione volta a proteggere l'oceano e tutta la vita che ne dipende”.

Gli ecosistemi oceanici sono vicini al punto di non ritorno

Jean-Pierre Gattuso è ricercatore senior presso il CNRS e uno degli organizzatori del One Ocean Science Congress, l'incontro scientifico che si è svolto a Nizza la settimana prima di UNOC3 e che ha prodotto 10 raccomandazioni scientifiche per proteggere l’oceano. “L’One Ocean Science Congress ha avuto il grande onore di rivolgersi ai delegati dell'UNOC3 nella sessione plenaria di chiusura”, scrive su LinkedIn.

“[…] Abbiamo accolto con favore i progressi compiuti negli ultimi giorni. Sono stati assunti impegni, sono state avviate partnership e si sono sviluppate coalizioni. Questi sono chiari indicatori di uno slancio positivo. Tuttavia, abbiamo parlato con onestà. C'è ancora molto da fare. Non siamo ancora sulla giusta traiettoria. Il tempo è essenziale. Numerosi ecosistemi oceanici si stanno già avvicinando a punti di non ritorno critici. Le conseguenze di ulteriori ritardi ricadranno soprattutto sulle popolazioni più vulnerabili. È necessario agire con urgenza e determinazione, iniziando immediatamente. Non c'è giustificazione per aspettare fino alla quarta Conferenza delle Nazioni Unite sugli oceani.”

Passi avanti verso la ratifica del Trattato dell’alto mare

Durante UNOC3, 19 paesi hanno depositato le proprie ratifiche per il Trattato sull’alto mare, portando a 50 il numero totale dei paesi che l’hanno ratificato. Ne servono 60 per la sua entrata in vigore. Diversi altri paesi hanno manifestato l'intenzione di depositare a breve i propri strumenti di ratifica presso l'ONU, il che significa che l'entrata in vigore del Trattato potrebbe essere attivata nelle prossime settimane, prima della prossima riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di settembre.

Al momento dell’entrata in vigore, il Trattato permetterà la costituzione di aree marine protette nell’alto mare (di cui oggi solo l’1,5% è protetto), una condizione necessaria per cercare di raggiungere l’obiettivo di protezione del 30% dell’oceano al 2030 (obiettivo 30x30).

Attualmente solo l'8,3% degli oceani del mondo è designato come aree marine protette (AMP) e la maggior parte di esse è protetta solo nominalmente oppure è regolamentata in modo così poco rigido che al suo interno è consentito lo svolgimento di attività distruttrici come la pesca a strascico.

Durante UNOC3 Polinesia francese, Samoa, Portogallo, Colombia e Isole Marshall hanno annunciato la creazione di aree marine protette nelle loro acque territoriali. “Tutte insieme [queste nuove aree marine protette] rappresentano solo una frazione dell'1% degli oceani mondiali. Quindi siamo tra l'8% e il 9% dell’oceano protetto”, ha detto Enric Sala, biologo marino e fondatore del progetto National Geographic Pristine Seas.

“[…] Tutta la protezione che abbiamo ottenuto negli ultimi 50 anni, dobbiamo quadruplicarla nei prossimi 5. Quindi questa conferenza è stata promettente perché ci sono stati nuovi annunci, ma allo stesso tempo deludente per la mancanza di azioni concrete. Il ritmo della conservazione degli oceani è [troppo] lento. Non possiamo essere ingenuamente ottimisti, dobbiamo essere realisti. I paesi del mondo, soprattutto quelli ricchi, devono seguire l'esempio di alcune di queste nazioni del Sud del mondo, soprattutto quelle che stanno proteggendo il 30% delle loro acque entro il 2030.”

Nuovi finanziamenti per l'oceano e impegni per risultati sostenibili

Secondo il rapporto The Ocean Protection Gap pubblicato poco prima dell'UNOC3, solo due paesi – Palau e Regno Unito – hanno effettivamente protetto oltre il 30% delle proprie acque, mentre globalmente c’è un deficit di 14,6 miliardi di dollari nella protezione dell’oceano.

Il 7 e l'8 giugno si è svolto a Monaco il Blue Economy and Financial Forum, con l’obiettivo di raccogliere fondi pubblici e privati ​​per lo sviluppo di attività virtuose in mare e sulle coste. Hanno partecipato al forum 1.800 persone provenienti da quasi 100 paesi e numerosi capi di stato, e sono stati annunciati nuovi impegni per 8,7 miliardi di euro entro il 2030 (4 miliardi di euro di finanziamenti pubblici e 4,7 miliardi di euro di finanziamenti privati/filantropici).

"Questi dati sono impressionanti e degni di nota. Detto questo, sono un po' scettico riguardo alla narrativa secondo cui più fondi equivalgono a più sostenibilità, conservazione, etc. ", ha spiegato a Materia Rinnovabile Robert Blasiak, professore associato presso lo Stockholm Resilience Centre all'Università di Stoccolma, dove si occupa di gestione sostenibile delle risorse oceaniche e tutela dell’oceano. “I nostri risultati nel convertire i finanziamenti in risultati di conservazione sostenibile sono stati contrastanti e ciò ci invita a un'estrema cautela per garantire che sforzi ben intenzionati non inneschino conseguenze negative indesiderate.”

Blasiak cita l'esempio di quella che è forse l'operazione di "finanza blu" di più alto profilo degli ultimi anni: lo scambio debito-natura alle Seychelles, inizialmente celebrato, ma più recentemente visto sotto una luce particolarmente dura.

“Spesso si sente dire che l'oceano ha semplicemente bisogno di più finanziamenti, ma questo ignora il fatto che negli ultimi due decenni si è verificata una crescita esponenziale in molteplici settori legati all'oceano, quindi un'enorme quantità di finanziamenti sta fluendo nell'oceano”, ci spiega l’esperto.

“Un obiettivo forse più importante potrebbe essere quello di garantire che qualsiasi finanziamento ‘convenzionale’ che affluisce in questi settori in rapida espansione sia legato a risultati di sostenibilità, trasparenza nel reporting, etc. Questo è l'obiettivo principale dell'impegno BackBlue delle istituzioni finanziarie. Al BEFF, diverse banche hanno sottoscritto l’impegno BackBlue, facendo confluire in esso oltre 3.000 miliardi di dollari di asset. Ciò non solo spinge il settore finanziario ad adottare misure proattive per finanziare attività più sostenibili, ma crea anche una norma di settore e consente alla società civile di monitorare se stanno rispettando o meno i propri impegni. Credo che abbia il potenziale per avere un impatto enorme.”

Oltre il “funding gap” verso il riconoscimento dei diritti dell’oceano

“Seppur ancora troppo limitata, si sta diffondendo la consapevolezza che i meccanismi di finanziamento debbano dare priorità all'accesso equo e al supporto diretto alle comunità indigene e locali, che sono i custodi in prima linea dell'oceano”, spiega a Materia Rinnovabile Mere Takoko, Indigenous Ocean and Climate Conservationist, Chief Executive Officer del Pacific Whale Fund, tramite cui si batte per il riconoscimento delle balene come persone giuridiche, in collaborazione con Michelle Bender, avvocata presso Ocean Vision Legal. “Iniziative come l'Ocean Rise and Coastal Resilience Coalition, lanciate durante l'UNOC3 e mirate a sostenere le comunità vulnerabili, ne sono esempi positivi, insieme agli sforzi per rafforzare le capacità delle comunità costiere di attrarre finanziamenti dal settore privato per imprese sostenibili.”

Tuttavia, aggiunge Takoko, “molto rimane ancora escluso e al fine di includere veramente la prospettiva indigena sulla conservazione degli oceani deve essere promossa inequivocabilmente la giustizia finanziaria e devono essere garantiti gli approcci basati sui diritti. Ciò significa andare oltre la narrativa del ‘gap di finanziamento’, che spesso inquadra la conservazione come un problema di scarsità di capitale, e affrontare invece le cause profonde del degrado ambientale: pratiche industriali distruttive e disuguaglianze sistemiche. È necessario sancire esplicitamente il diritto umano a un ambiente pulito, sano e sostenibile, garantendo che l'autodeterminazione e la sovranità dei popoli indigeni siano al centro di tutte le decisioni di governance degli oceani”.

La protezione degli oceani, conclude Takoko, “è indissolubilmente legata alla giustizia oceanica: senza dare priorità ai diritti, alla conoscenza e alla leadership dei popoli indigeni, qualsiasi strategia globale per la conservazione degli oceani rimarrà incompleta e inefficace”.

“La legge riflette chi siamo come società e può contribuire a cambiare i nostri valori”, aveva spiegato Michelle Bender di Ocean Vision Legal in un side event di UNOC3 dedicato al ruolo della legge nell’ocean literacy. “Se la legge ci dice che l'oceano è una risorsa, abbiamo il diritto di sfruttarlo. Se le leggi riconoscono i diritti dell'oceano [e degli organismi marini], allora abbiamo un rapporto più etico con esso. La legge può aiutarci a reinventare o ripristinare il nostro rapporto con l'oceano.”  

Un collettivo di associazioni francesi (Legal Wild, Longitudes 181, Vagues), statunitensi (Ocean Vision Legal, Earth Law Center) e la Global Alliance for the Rights of Nature hanno promosso l’inclusione dei diritti dell’oceano nella Nice Ocean Action Plan. “Purtroppo non siamo riusciti a ottenere l'inclusione dei diritti oceanici nella dichiarazione finale, nonostante i nostri molteplici solleciti e alleanze su questo tema”, ha commentato a Materia Rinnovabile Marine Calmet avvocata a Legal Wild e autrice del libro Justice pour l'étoile de mer: Vers la reconnaissance des droits de l'océan (Giustizia per la stella marina: verso il riconoscimento dei diritti dell’oceano).

Trattato globale sulla plastica, inquinamento acustico, sussidi dannosi alla pesca

In un evento a margine di UNOC3, oltre 90 stati membri delle Nazioni Unite hanno riaffermato il proprio impegno a negoziare un trattato globale sulla plastica ambizioso tramite la dichiarazione Nice Wake Up Call for an Ambitious Plastics Treaty.

Confermando dichiarazioni precedenti rilasciate durante il quinto ciclo di negoziati (INC-5) a Busan, in Corea del Sud l’anno scorso, i paesi hanno riaffermato la volontà di concludere un trattato ambizioso che includa l’itero ciclo di vita della plastica. In risposta a questa dichiarazione, oltre 230 organizzazioni della società civile, tra cui rappresentanti dei popoli indigeni, organizzazioni di raccolta dei rifiuti e comunità in prima linea nella crisi della plastica, chiedono agli stati membri di non fare marcia indietro sulle proprie ambizioni e di rafforzarle nella ripresa dei negoziati, prevista per agosto a Ginevra, in Svizzera.

Durante UNOC3 è stata presentata inoltre la High Ambition Coalition for a Quite Ocean. Lanciata da Canada e Panama, assieme ad altri 35 paesi, la coalizione ha come obiettivo di ridurre l’inquinamento acustico e i suoi impatti negativi sulla biodiversità marina e la resilienza degli ecosistemi.

Per il settore della pesca, invece, diversi paesi hanno annunciato la ratifica dell’Agreement on Fisheries Subsidies sviluppato nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Ratificato da 102 paesi, l’accordo entrerà in vigore quando sarà stato ratificato da 111 paesi e proibirà i sussidi dannosi alla pesca, che sono un fattore chiave del diffuso impoverimento delle riserve ittiche mondiali.

Durante UNOC3, infine, è stata anche presentata Towards IPOS (Intergovernmental Panel for Ocean Sustainability), un'iniziativa di interfaccia scienza-politica, modellata sul Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) e sulla Piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e sui servizi ecosistemici (IPBES), che aspira a rafforzare la capacità degli stati di attuare i propri impegni globali in materia di oceani in modo più efficiente, rapido e inclusivo.

 

In copertina: Antonio Guterres © UN-DESA