Camminare per ore sotto il sole per cercare acqua. Partorire senza assistenza perché la clinica è irraggiungibile dopo un’alluvione. Rinunciare alla contraccezione perché costosa, mentre la famiglia sprofonda nella crisi economica. Non sono scene da un futuro distopico: accade oggi, in Brasile, Kenya e Tanzania, dove la crisi climatica sta aggravando drammaticamente le disuguaglianze di genere e minacciando la salute riproduttiva di migliaia di donne.
A documentarlo è On Our Lands, On Our Bodies, uno studio di WeWorld presentato alla COP30 di Belém che, per la prima volta, dedica particolare attenzione alle comunità indigene. La ricerca mette al centro un’evidenza scomoda: la crisi climatica non è neutrale rispetto al genere. E colpisce nel modo più intimo possibile, sul corpo e sulla vita riproduttiva delle donne.
Il legame invisibile tra clima e diritti riproduttivi
Lo studio analizza un’intersezione spesso trascurata dalle politiche climatiche: quella tra degrado ambientale e salute riproduttiva. In tutti e tre i contesti esaminati − Brasile, Kenya e Tanzania − attraverso un approccio partecipativo che ha coinvolto le comunità locali in ogni fase della ricerca, emergono dinamiche simili, pur con specificità territoriali. La scarsità idrica, l’insicurezza alimentare e il collasso delle infrastrutture non solo minacciano la sopravvivenza immediata, ma erodono l’autonomia corporea delle donne e la loro capacità di accedere a servizi sanitari essenziali.
Nel Ceará brasiliano, le comunità indigene affrontano siccità sempre più prolungate che hanno destabilizzato l’agricoltura di sussistenza e reciso legami storici con la terra. Le donne raccontano come la ricerca quotidiana di acqua − che può richiedere un’intera giornata − sottragga tempo alle cure sanitarie e come la perdita di raccolti spinga alcune famiglie a vedere nelle gravidanze precoci una strategia di sopravvivenza economica.
In Kenya, nelle contee di Narok, Isiolo e Kwale, i numeri sono allarmanti: l’85% delle donne intervistate ha percepito cambiamenti climatici evidenti, il 91% segnala un accesso ridotto ai servizi sanitari, l’89% impatti negativi sulla gravidanza e l’83% un peggioramento della gestione della salute mestruale. Le infrastrutture danneggiate da alluvioni e siccità rendono irraggiungibili i centri sanitari, mentre l’insicurezza alimentare, riportata dal 64% delle donne, compromette la nutrizione materna.
Il peso invisibile del lavoro riproduttivo
Uno degli aspetti più significativi emersi dall’indagine riguarda l’intensificazione del carico di lavoro non retribuito. Quando i pozzi si prosciugano, sono le donne a dover percorrere distanze sempre maggiori per raccogliere acqua, spesso in condizioni di insicurezza. Quando i raccolti falliscono, sono loro a dover trovare strategie alternative per nutrire le famiglie. Questo “triplo carico” (lavoro domestico, agricolo/retribuito e impegno comunitario) ha conseguenze devastanti sulla salute fisica e mentale.
A Pemba, in Tanzania, le donne continuano a svolgere mansioni pesanti anche durante la gravidanza avanzata, mentre il 58% delle intervistate ha difficoltà ad accedere all’acqua e l’81% deve percorrere lunghe distanze per procurarsela. La pressione economica derivante dai cambiamenti climatici influenza profondamente le scelte riproduttive: alcune famiglie optano per meno figli a causa delle difficoltà crescenti, mentre altre, per mancanza di accesso alla pianificazione familiare o per norme culturali, continuano ad avere famiglie numerose. Emerge però anche un contrappeso: in diversi contesti si stanno formando reti informali di solidarietà femminile, spazi in cui le donne condividono esperienze e cercano soluzioni collettive, sebbene questi rimangano fragili, specialmente nelle comunità più conservative.
La ricerca, radicata in un paradigma femminista, decoloniale e intersezionale, ha coinvolto i team locali di WeWorld in ogni fase: dalla formulazione delle domande alla raccolta dati, fino all’elaborazione delle raccomandazioni. Questo processo di nove mesi ha previsto interviste biografiche, focus group e questionari strutturati, garantendo che le priorità locali orientassero l’indagine anziché venire imposte dall’esterno.
Lo studio si conclude con raccomandazioni concrete per diversi attori. Ai donatori internazionali si chiede di convogliare risorse direttamente verso organizzazioni femministe e guidate da donne, garantendo finanziamenti flessibili e di lungo termine che vadano oltre i cicli progettuali brevi. È fondamentale creare finestre di finanziamento dedicate alla salute sessuale e riproduttiva (SRHR) all’interno dei portafogli climatici, riconoscendola come componente essenziale della resilienza.
I governi dovrebbero integrare la SRHR nelle strategie nazionali di adattamento climatico, istituzionalizzare la leadership femminile nella governance climatica e adottare framework basati sui diritti che riconoscano esplicitamente i legami tra disuguaglianza di genere, disparità sanitarie e degrado ambientale. Meccanismi di monitoraggio trasparenti, inclusa la budgetizzazione sensibile al genere, sono essenziali per garantire che gli impegni si traducano in pratica.
La tempistica della pubblicazione non è casuale. La COP30 di Belém offre un’opportunità per riconoscere il ruolo vitale delle comunità rurali e indigene nelle soluzioni climatiche. Ospitare la conferenza nel cuore dell’Amazzonia brasiliana, dove le donne indigene sono custodi di ecosistemi vitali, ha un significato politico e simbolico profondo.
Lo studio sfida il paradigma dominante che tratta il cambiamento climatico principalmente come questione tecnica o ambientale. Invece, documenta come questa sia una crisi profondamente sociale, intrecciata con sistemi di potere patriarcali, coloniali ed economici. La giustizia climatica, sostiene la ricerca, non può esistere senza giustizia di genere. Lydia Wanja Kingeru, giovane attivista keniana che WeWorld supporta alla COP30, rappresenta la generazione che chiede azioni climatiche più eque e inclusive. La sua presenza, insieme all’attivista indigena brasiliana Glaubiana Alves, incarna la necessità di valorizzare le voci giovani nei processi decisionali globali.
Lo studio non si limita a documentare le vulnerabilità, ma evidenzia anche le strategie di resistenza e adattamento già in atto. Queste pratiche comunitarie rappresentano forme di conoscenza situata che sfidano i modelli estrattivi e top-down di risposta climatica, dimostrandosi essenziali per un’azione climatica efficace ed equa. Come emerge dalle testimonianze raccolte, le donne non sono vittime passive ma agenti attive di cambiamento. Tuttavia, la loro capacità di agire è gravemente limitata da strutture di potere ingiuste, accesso inadeguato alle risorse e mancanza di riconoscimento nei processi decisionali. Rimuovere questi ostacoli non è solo una questione di equità ma una condizione necessaria per costruire resilienza climatica genuina.
In copertina: foto di Aquiles Carattino, Unsplash
