Che la scienza non sia roba da donne è un vecchio luogo comune, ormai sempre più smentito da nuovi filoni della storiografia che ridanno a geniali ricercatrici e inventrici del passato il meritato posto negli annali del progresso umano.

Eppure, l’accesso ai percorsi di studio e soprattutto la reale possibilità per le donne di fare carriera nell’ambito tecnico-scientifico sono ancora disseminati di ostacoli culturali e barriere strutturali. E il divario di genere nelle cosiddette discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) continua a essere una voragine: secondo il Global Gender Gap report 2024 del World Economic Forum, le donne rappresentano solo il 28% della forza lavoro del settore, mentre la rappresentanza femminile nell’industria in ascesa dell’intelligenza artificiale è di appena il 22%.

Il paradosso è che i livelli di istruzione femminile sono aumentati costantemente nell’ultimo secolo, e nella maggior parte dei paesi ad alto reddito sono oggi mediamente più alti di quelli degli uomini. Insomma, le ragazze ottengono risultati migliori negli studi rispetto ai colleghi maschi, ma quelle che si indirizzano verso le discipline scientifiche sono ancora troppo poche, e ancor meno quelle che riescono a raggiungere i vertici della carriera. Perché?

Individuare e superare le cause di questo divario è una delle urgenze del prossimo futuro. Non solo per una questione di giustizia ed equità, ma anche per mera utilità: di fronte alle sfide della transizione ecologica e digitale, il mondo non può fare a meno dell’apporto della sua metà femminile.

Perché le donne non scelgono le STEM?

Fra le cause del gender gap nelle discipline tecnico-scientifiche, la maggior parte dei report (UNwomen, WEF, Save the Children) indica la carenza di infrastrutture e la difficoltà di accesso agli strumenti di apprendimento. Sono motivazioni purtroppo drammaticamente impattanti nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, dove per le ragazze è molto più complicato rispetto ai coetanei maschi raggiungere le scuole se vivono in aree remote o svincolarsi dai doveri familiari per studiare.

Ma le cause “logistiche” da sole non bastano a spiegare un divario che, se pur ridotto, è presente anche in Europa. “Secondo Eurostat, oggi nell’Unione Europea le donne rappresentano il 41% degli scienziati e degli ingegneri. Quindi siamo lontani dalla parità”, spiega a Materia Rinnovabile Martina Rogato, presidente e cofondatrice di HRIC – Human Rights International Corner e co-chair di Women7-G7. “Se estendiamo lo sguardo ai settori science & technology nel complesso, quindi considerando anche ruoli non puramente ingegneristici, le donne superano il 50% nell’UE. Ma quando entriamo nei ruoli più tecnici e avanzati, la loro presenza cala nettamente.”

Quanto all’Italia, siamo sotto la media europea. “Sempre Eurostat ci dice che le donne scienziate e ingegnere sono circa il 34%”, precisa Rogato. “È un dato stabile da diversi anni e mostra che il nostro paese fatica più di altri a valorizzare il talento femminile nelle discipline tecnico-scientifiche.”

Le cause, qui, sono di carattere culturale. Secondo Claudia Goldin, che nel 2023 ha vinto il Nobel per l’economia proprio per i suoi studi sul gender gap nel lavoro, una delle motivazioni è che le decisioni educative vengono prese in età troppo giovane e risentono spesso delle aspettative femminili formatesi a partire dalle esperienze delle generazioni precedenti. In pratica, una bambina che esprime il desiderio di diventare astronauta, di studiare ingegneria o di fare la ricercatrice deve affrontare un’impalcatura di stereotipi edificata nei secoli, e in più non ha molti modelli femminili visibili a cui ispirarsi.

Il risultato è che, come riporta il Global Education Monitor dell’UNESCO, la percentuale globale di donne laureate nelle STEM è praticamente ferma da un decennio al 35%. Dato confermato per l’Europa, e per l’Italia, anche da She Figures. Che fare dunque?

Colmare il gap

Il lavoro da fare per colmare il gap di genere nelle STEM è prima di tutto culturale: una paziente opera di scardinamento degli stereotipi e di costruzione di fiducia in sé stesse che deve partire sin dalle scuole primarie. È importante rendere più visibile il ruolo che le donne già hanno, e hanno avuto, nella scienza e nella tecnologia, insegnando e promuovendo una nuova prospettiva sulla storia – la cosiddetta Herstory – che includa le figure femminili rimaste ai margini o addirittura “derubate” dei meritati riconoscimenti solo perché donne. E, accanto a una nuova narrazione, serve la costruzione di nuovi network professionali più inclusivi e programmi di mentorship per le ragazze.

Ce ne sono svariati a livello internazionale, come il Women in STEM Network, con sede nel Regno Unito, il Global Engineer Girls, con varie sedi in Europa, in Turchia e in Arabia Saudita, e il network Women in Nuclear (WIN), con sede in Austria.

Anche in Italia ci si sta muovendo su questo fronte, come ci racconta ancora Martina Rogato. “Stanno nascendo iniziative importanti. Penso a Palestre Digitali, progetto nato con Fondazione Accenture, che offre formazione gratuita nelle competenze digitali e coinvolge molte giovani donne. Penso poi a Young Women Network, che lavora sul mentoring e sull’empowerment professionale, avvicinando le ragazze ai percorsi tecnologici. E a SheTech, una community che costruisce spazi di formazione e networking per donne che vogliono lavorare nell’innovazione.”

“Le iniziative che funzionano sono quelle che combinano formazione, mentoring e reti professionali”, continua Rogato. “Le community che ho citato sono essenziali, proprio perché creano percorsi di accesso e supporto in un ambiente che resta molto maschile. Anche alcune imprese italiane stanno investendo in progetti di inclusione nei ruoli tech, ma serve più continuità. Non bastano corsi di formazione: servono ambienti di lavoro dove le donne possano crescere e restare.”

Il tetto di cristallo

Proprio la crescita professionale, una volta avvenuto l’ingresso in un ambiente di lavoro prevalentemente maschile, è uno dei nodi più difficili da risolvere. Eccellenti professioniste, con tutto il curriculum di studi ed esperienze necessario, si trovano spesso a sbattere la testa contro il cosiddetto “tetto di cristallo”, quella barriera invisibile che impedisce alle donne di raggiungere ruoli di vertice. È un fenomeno purtroppo ampiamente documentato in molti settori, e le STEM non fanno certo eccezione. “I dati europei mostrano che, man mano che si sale nei ruoli scientifici e tecnologici, la presenza femminile diminuisce”, dice Martina Rogato. “È il fenomeno noto come leaky pipeline: le donne entrano, ma molte si perdono lungo il percorso.”

È una perdita di talenti che non danneggia solo le dirette interessate, ma tutto il mondo della ricerca scientifica e tecnologica, e che oggi riguarda da vicino anche la transizione ecologica, come osserva Rogato. “Tutti i settori chiave della transizione (energia, clima, dati ambientali, tecnologie pulite) hanno una componente tecnica fortissima”, conclude Rogato. “Servono ingegnere, data scientists, esperte digitali. Se le donne restano ai margini di questi percorsi, perdiamo metà del talento disponibile proprio quando servirebbero più competenze. E rischiamo anche di progettare la transizione con uno sguardo parziale. Quindi sì, esiste un tetto di cristallo. E oggi non è solo un tema di equità: è un limite allo sviluppo e alla qualità della nostra transizione green.”

 

In copertina: immagine Envato