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L’80ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite si è appena conclusa a New York. Per una settimana, presidenti, primi ministri e ministri sono saliti sul palco per riaffermare gli impegni per la pace, la sicurezza e lo sviluppo sostenibile. Beh, non tutti a dire il vero: Donald Trump, tra gli altri, ha usato il suo discorso per minimizzare il cambiamento climatico, attaccare l’Accordo di Parigi e riproporre affermazioni fuorvianti sulle rinnovabili.

Anche l’acqua è emersa nei discorsi e negli eventi paralleli, descritta sia come vittima del cambiamento climatico sia come veicolo di cooperazione. Eppure, ciò che questi incontri rivelano più chiaramente è come l’acqua sia ormai diventata un argomento politico a sé stante. I leader l’hanno evocata per segnalare responsabilità ambientali, sottolineare vulnerabilità nazionali, affermare sovranità o proiettare leadership globale.

Ma le parole a New York, ancora una volta, si sono fermate prima di azioni vincolanti. Il simbolismo ha dominato sulla sostanza, e le Nazioni Unite stesse sono in gravi difficoltà: faticano a proiettare autorità in un momento in cui le loro risoluzioni vengono regolarmente ignorate, la loro credibilità è messa in discussione e la loro capacità di far rispettare impegni collettivi appare più che mai debole. E lo stesso valeva per le loro scale mobili.

Questo divario tra performance e realtà è stato ulteriormente messo in evidenza da un nuovo rapporto OMS/UNICEF pubblicato il 24 settembre, il quale ha avvertito che, nonostante “sforzi senza precedenti” da parte di oltre cento paesi, miliardi di persone mancano ancora dei servizi di base nelle strutture sanitarie, dall’acqua potabile ai servizi igienico-sanitari all’igiene e alla gestione dei rifiuti. Anche mentre i leader parlavano di accelerare i progressi, i bisogni fondamentali restavano insoddisfatti.

L’attenzione si sposta ora sulla prossima tappa: la UN Water Conference, in programma dal 2 al 4 dicembre 2026 negli Emirati Arabi Uniti, co-organizzata con il Senegal. Colpisce il contrasto temporale. Quasi mezzo secolo separava, infatti, la prima conferenza mondiale sull’acqua a Mar del Plata nel 1977 dalla seconda, tenutasi a New York nel 2023. Ora l’intervallo si è ridotto a soli tre anni. Tuttavia, questa accelerazione non è prova di progresso ma piuttosto segno della crescente centralità politica dell’acqua.

L’acqua è ormai inseparabile dalle grandi sfide della nostra epoca: cambiamento climatico, transizione energetica, sicurezza alimentare, migrazioni, persino conflitti armati. Nessuna istituzione globale può permettersi di ignorarla, e tuttavia l’urgenza improvvisa rischia di trasformare l’acqua in un altro palcoscenico di diplomazia ritualizzata, alla quale siamo ormai fin troppo abituati, anche perché più vertici non significano necessariamente una governance migliore.

La Conferenza del 2026 rischia di seguire un copione ben collaudato. Ciò che sarà presentato come un incontro di svolta rischia di ripetere cliché già noti: l’acqua incorniciata come crisi universale, la salvezza promessa attraverso impegni volontari e la responsabilità dispersa tra governi, imprese e cittadini. La retorica di una “crisi idrica globale”, che sarà senza dubbio utilizzata in massa, appiattisce realtà radicalmente diverse in un’unica narrazione. In alcuni luoghi, lo stress idrico deriva da tubature che perdono e infrastrutture fatiscenti, in altri dall’intensificazione della siccità dovuta al cambiamento climatico; altrove, da industrie estrattive che prosciugano le falde per alimentare le catene di approvvigionamento globali. Racchiudendo tutto questo in un unico pacchetto, le conferenze cancellano le politiche che contano davvero: chi controlla l’acqua, chi ne trae profitto e chi paga i costi della sua scarsità.

Anche la scelta della sede è significativa, poiché ospitare la conferenza del 2026 negli Emirati Arabi Uniti dà visibilità a uno stato che ha investito immense risorse nella desalinizzazione, nello sfruttamento delle falde e in tecnologie idriche futuristiche. Il pericolo è che la conferenza si trasformi più in un mercato per esibire finanza e innovazione che in un forum di giustizia. Nel frattempo, si moltiplicano le dispute transfrontaliere. Dall’Indo al Nilo al Mekong, i governi stanno rivendicando il controllo sui fiumi condivisi con scarso riguardo per i quadri multilaterali, come dimostra la recente inaugurazione della Grand Ethiopian Renaissance Dam. In questo contesto, la promessa di “acqua per la cooperazione” suona vuota. Le conferenze possono celebrare l’ideale, ma non hanno strumenti per farlo rispettare. Le dichiarazioni ad Abu Dhabi non freneranno la costruzione unilaterale di dighe, il nazionalismo delle risorse o il progressivo indebolimento del diritto internazionale.

Il ciclo compreso tra il 2023 e il 2026 rivela quindi qualcosa sulla politica della performance. L’acqua è diventata troppo importante per essere ignorata, ma anche troppo contesa per essere governata collettivamente. Il risultato è un’accelerazione dello spettacolo: più incontri, più discorsi, più opportunità fotografiche, mentre i fattori strutturali dell’insicurezza restano intatti.

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In copertina: Band-e-Amir National Park, UN Photo/Eric Kanalstein