A pochi mesi dal compromesso che aveva scongiurato una guerra commerciale totale, Washington torna all’attacco. Gli Stati Uniti hanno chiesto all’Unione Europea di allentare alcune delle sue regole ambientali più stringenti. Secondo un documento ottenuto dal Financial Times, la lettera indirizzata alla Commissione europea chiede di esentare le aziende statunitensi dall’obbligo di presentare i “piani di transizione climatica” e di rivedere le norme europee sulla due diligence ambientale nelle catene di fornitura.

Per Washington, si tratta di una “grave e ingiustificata eccessiva regolamentazione” che penalizzerebbe la competitività delle imprese statunitense nel mercato europeo. Dietro queste questioni tecniche si nasconde un confronto ben più profondo: lo scontro tra due visioni economiche della transizione verde.

L’Unione Europea ha scelto un quadro normativo che lega indissolubilmente sostenibilità e competitività, chiedendo trasparenza e responsabilità alle imprese sull’impatto ambientale e sociale delle loro attività. L’amministrazione Trump, al contrario, spinge per un approccio più flessibile e orientato al mercato, contestando regole che considera extraterritoriali e potenzialmente forme mascherate di “protezionismo verde”.

Le aziende europee vogliono la sostenibilità

Ma la narrazione di un’economia soffocata dalle regole green trova una smentita proprio sul campo. E arriva dalle stesse imprese che dovrebbero essere le prime a lamentarsi. Lo scorso giugno, 39 aziende europee – tra cui le italiane Chiesi (farmaceutica), Florim (ceramica), Mutti (conserve alimentari) e Kerakoll (pavimenti) – hanno inviato una lettera all’Europarlamento con una richiesta inattesa: mantenere fermi gli obblighi climatici previsti nel pacchetto Omnibus.

Non è una mossa retorica. Queste imprese hanno già investito massicciamente in sostenibilità e transizione, e temono che ogni passo indietro le penalizzi nella competizione internazionale. La loro posizione smonta dall’interno le narrazioni che dipingono il Green Deal come un fardello insostenibile per l’economia: “I Piani di transizione climatica non sono solo un esercizio di compliance: ci permettono di anticipare e mitigare i rischi finanziari legati al clima, di adattare in modo efficace le nostre strategie aziendali e di evitare costi imprevisti. Grazie a essi, possiamo dialogare con trasparenza e credibilità con investitori e portatori di interesse, integrando una gestione dei rischi lungimirante e creando rapporti di lungo termine basati sulla fiducia. Per noi avere requisiti chiari e armonizzati non rappresenta un onere burocratico, bensì una leva reale per la crescita, la trasparenza e l’accesso ai finanziamenti”.

L’iniziativa, nata all’interno del programma CO2alizione coordinato da Nativa e Fondazione per lo sviluppo sostenibile, testimonia l’esistenza di un fronte che si contrappone alle posizioni più scettiche del governo italiano e di Confindustria. Per queste aziende, arretrare sulle regole climatiche non significa solo un problema etico, ma mette a rischio il principio stesso della concorrenza leale.

La lettera – che rimane aperta alla firma di tutte le imprese europee – va oltre la difesa dello status quo. Chiede di mantenere i piani di transizione climatica come parte integrante della Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), di stabilire un quadro chiaro per rendere questi piani comparabili, e infine di investire nella formazione del personale necessario per adempiere a tali obblighi. In sostanza, invece di sottrarsi alle responsabilità della transizione, queste aziende chiedono di essere aiutate a fare la propria parte. Esattamente il contrario di quanto richiesto da Washington, insomma.

Come ha sottolineato la Banca centrale europea, svuotare gli obblighi di trasparenza sul clima non libera le imprese dalla burocrazia: compromette la fiducia dei mercati e dei consumatori. In assenza di dati affidabili sulla decarbonizzazione, le aziende – soprattutto le PMI – rischiano di essere percepite come soggetti ad alto rischio climatico ed escluse dalle opportunità di finanziamento. Il risultato? Un indebolimento della posizione europea nella competizione globale per investimenti e leadership tecnologica.

Il nodo della competitività

Cosa c’è in ballo? Il mercato europeo resta strategico per le aziende statunitensi, specialmente nei settori tecnologico, manifatturiero, industriale ed energetico. Le esportazioni e gli investimenti statunitensi sul territorio europeo sono massicci. Proprio per questo, le normative europee di due diligence ambientale e sociale – entrate in vigore nel 2024 con il Corporate Sustainability Reporting Directive e la Due Diligence Directive – rappresentano una sfida concreta.

Gli obblighi stringenti di identificazione e mitigazione dei rischi ambientali e sociali nelle catene di approvvigionamento aumentano i costi di conformità e introducono complessità amministrative che Washington fatica a digerire. Il timore è che tali regole penalizzino soprattutto le aziende con catene di fornitura globali complesse. Eppure, nella pratica, anche molte aziende statunitensi si stanno adattando.

Adottano processi di reporting di sostenibilità e gestiscono attivamente i rischi climatici per non perdere l’accesso al mercato europeo. E, pur lamentando gli oneri amministrativi, diverse società stanno scoprendo che questi adempimenti possono diventare un’opportunità: attrarre investimenti ESG e rafforzare la resilienza delle filiere produttive.

Una frattura globale, mentre la crisi avanza

Il confronto tra USA e UE segna una linea di frattura profonda nella governance globale della transizione climatica. Da una parte, l’Europa che punta a trasformare le regole green in leva geopolitica ed economica. Dall’altra, gli Stati Uniti che premono per una regolazione più morbida, preoccupati per gli impatti su esportazioni e competitività industriale. E mentre questa battaglia diplomatica si consuma tra Washington e Bruxelles, il clima non aspetta.

Uno studio pubblicato proprio l’8 ottobre su PNAS, la Proceedings of the National Academy of Sciences, una delle riviste scientifiche più prestigiose e autorevoli al mondo, nonché la rivista ufficiale della National Academy of Sciences degli Stati Uniti, evidenzia come l’Europa stia già sperimentando una relazione non lineare tra temperature e mortalità: nei paesi del Mediterraneo meridionale, le previsioni di mortalità correlata al caldo risultano più accurate alle temperature elevate che a quelle miti, segno che questi territori hanno ormai superato una soglia critica di adattamento.

In Italia, i numeri parlano da soli. Nei primi sette mesi del 2025, la Lombardia ha registrato 30 eventi meteorologici estremi – alluvioni, frane, trombe d'aria, grandinate, ondate di calore – risultando la regione più colpita dell’arco alpino secondo l’Osservatorio città clima di Legambiente. Le province di Brescia, Bergamo, Como e Sondrio hanno subìto danni ingenti a infrastrutture, reti viarie e stabilimenti produttivi. Il presidente di CNA Lombardia, Giovanni Bozzini, dopo aver visitato i territori colpiti, ha posto la questione in termini espliciti: “Si trovano 40 miliardi all'anno in più per i prossimi dieci anni per centrare gli obiettivi di spesa militare NATO: si trovino allora i denari anche per mettere in sicurezza le nostre comunità”.

La necessità di coordinamento e solidarietà internazionale si fa sempre più impellente. Ma mentre Washington e Bruxelles discutono di regolamenti e competitività, il cuore produttivo dell’Europa – dalla Lombardia ai paesi mediterranei – sta già pagando il conto di un clima che cambia più velocemente della politica. La domanda, a questo punto, non è più quale modello prevarrà nella corsa alla neutralità climatica, ma se saremo in grado di arrivarci prima che sia troppo tardi.

 

In copertina: foto di Nicolas Kovarik © European Union, 2025