A inizio agosto gli Emirati Arabi Uniti hanno avviato la costruzione di una condotta per trasportare acqua desalinizzata dall’Egitto alla Striscia di Gaza, nel tentativo di alleviare la profonda crisi idrica dovuta alle azioni militari di Israele, che nel momento in cui scriviamo minaccia l’occupazione totale dell’enclave palestinese.
Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa statale emiratina WAM, squadre tecniche sono già all’opera per installare l’infrastruttura, che si estenderà per circa sette chilometri, collegando un impianto di desalinizzazione sul versante egiziano alla zona costiera di Al-Mawasi, nel Sud della Striscia. Una volta operativa, la condotta dovrebbe fornire acqua potabile a circa 600.000 persone al giorno. Parallelamente, gli Emirati hanno lanciato altre iniziative per riabilitare e perforare pozzi potabili all’interno del territorio di Gaza, ove la popolazione è costretta in piena estate a limitarsi a ad avere 3-5 litri di acqua al giorno, molto meno dei 15 litri pro capite indicati dall’Organizzazione mondiale della sanità come soglia di sopravvivenza.
A Gaza una “carestia di massa provocata dall’uomo”
L’avvio dei lavori da parte emiratina è stato confermato anche dal COGAT, l’organo del Ministero della difesa israeliano che gestisce gli affari civili nei territori palestinesi occupati, secondo cui i lavori dureranno alcune settimane. La stessa agenzia, che si occupa anche del coordinamento degli aiuti umanitari, nei giorni scorsi ha mostrato immagini di mercati affollati nella Striscia di Gaza e prodotti freschi, sostenendo che “gli aiuti umanitari arrivano ogni giorno, via terra e via aerea”, e accusando Hamas di diffondere una “falsa narrativa sulla carestia”.
Una versione nettamente smentita da numerose organizzazioni umanitarie, agenzie ONU e organismi indipendenti. In particolare, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha risposto all’appello di oltre 100 ONG, tra cui Amnesty International, Medici senza frontiere e Oxfam, definendo la situazione a Gaza una “carestia di massa provocata dall’uomo”, causata dal blocco imposto dalle forze israeliane sul territorio all’ingresso di cibo, acqua e medicinali, che secondo le Nazioni Unite sta lasciando quasi una persona su tre a Gaza senza cibo per giorni, con 90.000 donne e bambini che hanno urgente bisogno di cure.
Questo per dare menzione di chi è ancora in vita, perché, secondo lo stesso Ministero della salute di Gaza, le vittime sarebbero già 60.000, stime probabilmente conservative, come dimostrava lo studio di The Lancet pubblicato a gennaio e un’ulteriore stima indipendente di fine giugno, che parla già di oltre 84.000 decessi tra azioni militari, carestia, malattie e collasso dei sistemi sanitari solo tra ottobre 2023 e inizio gennaio 2025.
A Gaza la crisi idrica è strutturale
Va precisato che non è la prima volta che a Gaza manca l’acqua, né è la prima volta che l’acqua viene usata come leva politica e strumento di pressione. Circa 2,1 milioni di persone vivono con accessi estremamente limitati a fonti idriche sicure e, dopo i tagli imposti da Israele alle forniture, la maggior parte dei residenti dipende da pozzi salmastri e spesso inquinati, o da consegne irregolari effettuate da ONG e agenzie umanitarie, ostacolate a loro volta dalle restrizioni all’accesso.
Queste restrizioni si estendono anche al divieto di accesso al Mar Mediterraneo lungo tutta la Striscia, in vigore dall’inizio della guerra ma applicato in particolare dal 12 luglio, come dichiarato da un portavoce dell’esercito isrealiano su X. Un divieto che priva molti palestinesi di una risorsa vitale per lavarsi (o anche solo rinfrescarsi) e procurarsi cibo attraverso la pesca, aggravando così una situazione umanitaria già drammatica.
Finora, circa l’80% delle infrastrutture idriche della Striscia è stato danneggiato o distrutto a causa della guerra in corso. Sono stime di Oxfam di febbraio, secondo cui dall’inizio del conflitto l’85% delle stazioni di pompaggio fognario (73 su 84) e delle relative reti è stato distrutto: alcune sono state riparate, ma necessitano urgentemente di carburante per funzionare. L’85% degli impianti di desalinizzazione di piccole dimensioni (85 su 103) risulta danneggiato o completamente distrutto, mentre il 67% dei 368 pozzi municipali è stato reso inutilizzabile. La maggior parte dei pozzi privati, inoltre, non può operare per mancanza di carburante o generatori.
Il monopolio israeliano dell’acqua e il paradosso Mekorot “tripla A”
Il 19 luglio 2024, la Corte internazionale di giustizia ha ribadito che Israele, in quanto potenza occupante, ha l’obbligo legale di garantire alla popolazione civile palestinese un accesso adeguato a cibo e acqua. Tuttavia, secondo gli esperti delle Nazioni Unite, il flusso idrico verso Gaza è stato drasticamente ridotto, comprese le forniture di emergenza.
Tra i nodi più controversi della crisi c’è però il ruolo di Mekorot, la compagnia nazionale dell’acqua israeliana. Secondo Al Jazeera, Israele ha recentemente ricollegato alcune condutture nel Nord di Gaza alla rete Mekorot, dopo averle interrotte nelle prime fasi del conflitto. Tuttavia, i residenti riferiscono che l’acqua continua a non arrivare con continuità.
Il paradosso di Mekorot emerge con chiarezza nel rapporto delle Nazioni Unite From Economy of Occupation to Economy of Genocide, pubblicato il 30 giugno 2025 dalla relatrice speciale Francesca Albanese. Il documento denuncia come “Israele costringa i palestinesi ad acquistare acqua proveniente da due grandi falde acquifere situate nel loro stesso territorio, a prezzi gonfiati e con forniture intermittenti. La compagnia idrica nazionale israeliana, Mekorot, detiene il monopolio sull’acqua nei territori palestinesi occupati”.
A Gaza, oltre il 97% dell’acqua estratta dalla falda costiera non è potabile secondo gli standard dell’Organizzazione mondiale della sanità. La popolazione è quindi costretta a dipendere dai rifornimenti provenienti dalla rete Mekorot. Secondo lo stesso rapporto, “per almeno sei mesi dopo l’ottobre 2023, Mekorot ha operato le sue condutture a Gaza al 22% della capacità, lasciando aree come Gaza City senz’acqua il 95% del tempo, contribuendo attivamente a trasformare l’acqua in uno strumento di genocidio”.
L’agenzia di rating israeliana S&P Maalot ha tuttavia di recente confermato a Mekorot il massimo rating di credito locale (AAA), seppur con outlook negativo a causa del conflitto. Una valutazione giustificata dalla “robusta performance finanziaria” della società nel 2024. Un ulteriore esempio − dopo i casi sollevati da IrpiMedia su Morgan Stanley Capital International (MSCI) e Morningstar Sustainalytics − di quanto siano ancora lontani i tempi di un sistema efficace di accountability dei diritti umani nelle griglie di valutazione, anche di quelle non strettamente ESG.
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In copertina: foto scattata in Palestina nell’aprile 2024 da Emad el Byed, Unsplash