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Resistenti ad acqua, grassi e alte temperature. Ma anche indistruttibili, “silenziosi” e ormai onnipresenti. I PFAS, sostanze per- e polifluoroalchiliche, sono diventati simbolo delle nuove emergenze ambientali. Usati per decenni in prodotti e processi industriali, dai rivestimenti antiaderenti alle schiume antincendio, devono il loro successo alla straordinaria stabilità chimica dei loro legami. Proprio questa caratteristica li rende però oggi quasi impossibili da eliminare una volta dispersi nell’ambiente.
I PFAS persistono infatti in fiumi e terreni, si accumulano negli organismi viventi e si concentrano lungo la catena alimentare. I PFAS hanno una struttura “a doppia faccia”: idrofili e idrofobici allo stesso tempo, riescono a viaggiare nell’acqua ma anche a legarsi ai suoli, rendendo il loro destino ambientale difficile da prevedere.
Ciò che un tempo ha favorito lo sviluppo industriale e molte applicazioni diventa così un problema per la salute pubblica e la gestione delle risorse naturali. Per affrontarlo, oltre a limitarne l’uso nei processi industriali, oggi si stanno sviluppando tecniche di rimozione più efficaci e sistemi di monitoraggio più precisi. Perché questa vasta famiglia di oltre diecimila composti resta ancora, in gran parte, una frontiera sconosciuta.
Come distruggere i PFAS?
Le vie di ingresso dei PFAS nell’ambiente sono molteplici: scarichi industriali, acque di lavaggio dei processi produttivi, percolati provenienti dalle discariche. Una volta nel suolo o nei fiumi, questi composti diventano difficilmente eliminabili e finiscono per contaminare falde e bacini idrici. Senza restrizioni sull’uso dei PFAS, la bonifica dei siti contaminati potrebbe costare ai paesi europei fino a 100 miliardi di euro all’anno.
“Distruggerli non è semplice”, spiegano a Materia Rinnovabile Marco Piva, CTO, e Lucia Zanetti, responsabile progetti R&D di HBI, azienda italiana specializzata in tecnologie avanzate per la valorizzazione dei fanghi che ha sviluppato e applicato la prima tecnologia poli generativa e circolare per il trattamento dei fanghi di depurazione. “Molti trattamenti che promettono di eliminarli ottengono in realtà solo una degradazione parziale, spezzando le molecole in composti diversi ma spesso altrettanto persistenti. Queste molecole sono ancora composti perfluoroalchilici, ma riconoscerle richiederebbe una tecnica di analisi in grado di distinguere migliaia di molecole differenti, rendendo improponibile la determinazione analitica. L’unico modo per parlare davvero di eliminazione è la mineralizzazione, cioè la rottura completa dei legami carbonio-fluoro. Solo così si ottengono prodotti innocui come anidride carbonica, acqua e acido fluoridrico, che rappresenta la forma inorganica del fluoro. Il problema è che raggiungere la mineralizzazione richiede condizioni estreme: temperature elevatissime, ambienti reattivi, processi sofisticati e costosi. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, per ottenere una rimozione adeguata nei trattamenti termici ossidativi servono almeno 1.100 gradi mantenuti per due secondi. Al di sotto di queste soglie, il rischio è di ottenere solo una trasformazione apparente, con la formazione di derivati che sfuggono alle analisi di laboratorio.”
Le potenziali tecnologie oggi disponibili, dalla distruzione all’analisi
“Le potenziali tecnologie oggi in studio spaziano dai trattamenti termici ad alta temperatura ai processi radicalici e UV, che generano specie reattive capaci di attaccare i legami C–F”, continua Lucia Zanetti. “Ci sono poi approcci più innovativi, come le tecniche meccanochimiche basate sulla macinazione ad alta energia o la sonochimica, che sfrutta le implosioni di microbolle prodotte dagli ultrasuoni per creare microambienti estremi. Sono tutte strategie promettenti, ma ancora lontane da un’applicazione diffusa su larga scala, sia per la complessità tecnica, sia per i costi energetici che comportano.”
Anche sul fronte delle analisi la questione è tutt’altro che risolta. Capire se un trattamento abbia davvero eliminato i PFAS richiede parametri affidabili, ma nessuno strumento da solo sembra sufficiente. “L’analisi del fluoro totale, ad esempio, ha una sensibilità troppo bassa rispetto alle concentrazioni tossiche. La determinazione del fluoro organico totale, inoltre, risulterebbe utile per tracciare la presenza dei PFAS e chiudere un bilancio di massa, ma rischia di includere altre molecole organiche fluorurate. Negli studi scientifici si sta diffondendo l’uso della misura dell’acido fluoridrico, considerato un buon indicatore del grado di mineralizzazione, ma la difficoltà di campionamento ne limita l’affidabilità. Per questo, gli esperti concordano sulla necessità di combinare più metodiche e di usare campioni di riferimento per distinguere i prodotti della degradazione dai contaminanti già presenti nell’ambiente.”
L’esperienza di HBI
HBI ha svolto tre campagne sperimentali per testare l’efficacia della propria tecnologia, che integra i processi termochimici di HTC e gassificazione, con combustione del syngas nella degradazione dei PFAS contenuti nei fanghi di depurazione.
“L’obiettivo delle campagne era quello di capire come i PFAS contenuti all’interno dei fanghi si comportassero durante i vari step di trattamento”, spiega Marco Piva. “Quello che è emerso è che pare che i PFAS tendano per la maggior parte a concentrarsi nell’hydrochar [il prodotto solido derivante dal processo HTC, ndr], che quindi risulta ancora fortemente inquinato dai composti, mentre una piccola parte potrebbe trovarsi nel gas-HTC. Circa metà del PFBS in origine contenuto nei fanghi rimane nell’acqua di processo che viene ricircolata al depuratore. Durante la gassificazione, pare che pressoché tutti i PFAS analizzati contenuti nell’hydrochar volatilizzino, considerate le temperature in gioco, liberando la frazione solida e concentrandoli nel syngas. Stiamo lavorando per massimizzare la frazione di PFAS che si ripartiscono nel syngas per avere uno stream finale da trattare. A questo punto, riuscire a garantire le condizioni di mineralizzazione suggerite dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, durante la combustione in caldaia del syngas, diventa un tema di design ingegneristico della caldaia su cui abbiamo lavorato.”
In ogni caso, per poter determinare il bilancio totale sul fluoro, che garantirebbe la completa determinazione dell’evoluzione di queste molecole, il limite maggiore resta nella disponibilità di tecniche analitiche adeguate. Le tecniche standard permettono di misurare il fluoro totale solo a concentrazioni relativamente alte (nell’ordine dei ppm, parti per milione), mentre i PFAS sono dannosi già a livelli mille volte inferiori. Da qui, conclude Lucia Zanetti, “l’approccio di HBI di garantire il rispetto delle condizioni di mineralizzazione succitati, come punto di partenza per poter ottimizzare successivamente la propria tecnologia”.
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In copertina: un impianto HBI