Quando ho scritto il libro Che cosa è l’economia circolare analizzavo come “l’economia lineare liberista tende a scartare come un rifiuto di poca importanza la vita delle persone. Razionalizzazione, ristrutturazione, outsourcing: tutti termini che sottendono l’eliminazione di risorse umane a favore di rendimenti e profitti più alti. Un rifiuto economico che viene scaricato a costo quasi nullo per lo stato, senza troppe riflessioni”.
Era il 2015 quando scrivevo queste parole e sembrava che uno stato crescente di pacificazione a livello mondiale trasferisse finalmente il conflitto sociale nella sfera economica, in particolare nella grande sfida della transizione ecologica ed economica a fronte della policrisi ambientale, climatica e della biodiversità. Dopo l’Accordo di Parigi si era diffuso ottimismo, non solo per il clima, ma per il grande esercizio di cooperazione tra nazioni.
L’ennesimo fronte di guerra aperto da Israele e USA in Iran conferma invece una preoccupante escalation. Se in questo ultimo decennio abbiamo fallito nell’includere la componente sociale (persone e diritti), nella transizione green, tradendo l’impegno per una just transition, negli ultimi anni si è addirittura tornati a una situazione geopolitica novecentesca, facendo di uomini e donne carne da macello per ideali astorici come sicurezza nazionale e difesa dell’etnostato (Israele), identità e nazionalismo (USA e Italia), Lebensraum, o spazio vitale, (Russia), identità etnica (Sudan), autoritarismo (Myanmar), teocrazia (Iran e milizie islamiche nel Sahel).
Con la delegittimazione e la distruzione della sfera delle Nazioni Unite, l’erosione del diritto internazionale e l’assenza di una politica fondata su valori di cooperazione e pace, l’economia di guerra e la geopolitica militarista sono tornate alla ribalta nel momento peggiore possibile.
Mentre sfuggono gli obiettivi di Parigi sul clima, di Kunming-Montreal sulla biodiversità, dei Sustainable Development Goal su sviluppo e lotta alla povertà, e si aggrava la crisi del Green Deal europeo, l’ultradestra nazionalista globale accelera sulle operazioni militari, arrivando pericolosamente vicini alla Terza guerra mondiale e ordendo nuovi genocidi (a Gaza ma anche in Darfur).
Le risorse economiche per la difficile transizione green vengono spostate su armamenti e sistemi di cybersicurezza, droni d’assalto e sistemi di combattimento avanzati, nei cieli e nei mari. Mentre si chiude l’USAID, l’organizzazione della cooperazione americana, si taglia il budget degli stati EU per le agenzie ONU e si riduce il welfare anche negli stati più ricchi, la NATO, su spinta di Donald Trump, ottiene che gli stati membri aumentino entro il 2035 la spesa militare al 5% del prodotto interno lordo nazionale. Il 3,5% del PIL andrà in armamenti, più un altro 1,5% relativo agli investimenti nella tecnologia “dual use”, cioè sia civile sia militare, come la cybersicurezza.
Solo la Spagna ha saputo con forza tirarsi indietro dagli “irragionevoli obiettivi”, incompatibili con il mantenimento del welfare. Per l’Italia significa triplicare la spesa militare (a cui dedichiamo l’1,3% del PIL contro lo 0,28 per la cooperazione, secondo i dati OCSE-DAC 2024): uno sforzo mostruoso se si vuole mantenere sotto controllo il debito pubblico. Più di 30 miliardi di euro addizionali che dovranno essere presi o dal welfare e dai fondi per la transizione, oppure provando a portare avanti una lotta senza quartiere all’evasione fiscale e tassando i patrimoni. Facile ipotizzare quale sarà il percorso adottato. E non solo in Italia.
L’escalation del riarmo non avrà necessariamente impatti positivi a livello economico, mentre renderà più facile il ricorso ad azioni militari, senza portare sicurezza reale, anzi mettendo sempre più a rischio la vita di cittadini e cittadine. Non solo: il riarmo, con il suo dragaggio di risorse, aprirà le porte a un’accelerazione degli scenari climatici peggiori, davanti ai quali dovremo sacrificare ulteriori vite umane, stabilità politica e – per i più venali – vari punti di PIL. Uno scenario di inevitabile impoverimento e arretramento globale.
È la peggiore strada che potessimo intraprendere nel Ventunesimo secolo e che ci riempie di preoccupazione. La ragione militare e di stato prende il sopravvento, riducendo a impedimento la diplomazia ambientale e l’economia di transizione. I negoziati internazionali sul clima diventano una nuance. “Muoiono i bambini e pensi al caldo?”, ha commentato un tassista qualche giorno fa mentre cercavo di esporgli questo ragionamento nella maniera più semplice possibile. Narrative simili prendono il sopravvento: la pace è un ostacolo alla sicurezza, la sfida ambientalista un ostacolo alla stabilità, i diritti umani una questione di prospettiva, il genocidio un’esagerazione di chi si oppone al folle Netanyahu.
Affidare i rapporti di potere globali alla forza militare, alle guerre commerciali improvvisate, al tecnocapitalismo senza controlli soffoca il confronto basato sulla cooperazione garantita dal diritto. Diritto internazionale e diritto umano, difficilmente ottenuti dopo la Seconda guerra mondiale, obliterati in pochi anni da una politica senza visone internazionalista e cooperativa.
Nei giorni scorsi il grande politologo Carlo Galli, mio professore all’Università di Bologna, scriveva su Repubblica: “Il diritto internazionale non è una truffa, come, all’opposto, non è una condizione necessaria, sempre sussistente. È il volto razionale, riconoscibile e prevedibile di una normalità che non è alla sua portata creare. Ma che è alla portata della politica. Se questa fosse una ‘grande politica’, e trovasse in sé, oltre le ragioni della guerra, anche la capacità di elaborare un’idea di pace, di delineare un progetto di ordine nuovo. Se insomma non fosse invischiata in una guerra senza fine”. E, aggiungo io, in una crisi ambientale in pieno svolgimento.
Ecco, serve un progetto di nuovo ordine globale. Che vada oltre il modello kantiano esposto in Per la pace perpetua (Zum ewigen Frieden). Serve una pace verde perpetua, in un mondo post-stati nazionali, con un’economia di transizione post- capitalista, fondato sul diritto. Non c’è momento più urgente che nel pieno di una guerra che si espande, di giorno in giorno, in nuove aree del pianeta.
In copertina: Gaza © Emanuele Bompan