Negli anni successivi al lancio del Green Deal europeo, qualcosa è cambiato. Non solo nei mercati, nelle fabbriche o nelle campagne, ma anche nel linguaggio. Un cambiamento sottile, ma profondamente indicativo: il termine “green”, per anni emblema dell’impegno ambientale europeo, sta progressivamente lasciando il passo a un nuovo paradigma, quello del “clean”. La svolta non è puramente lessicale: essa riflette una trasformazione sistemica, figlia tanto degli errori del passato quanto dei mutati equilibri geopolitici globali.
La fragilità del Green Deal in un mondo instabile
Il Green Deal europeo, annunciato con enfasi nel 2019, era stato pensato in un’epoca di relativa stabilità, in cui la transizione ecologica sembrava potersi compiere attraverso strumenti economici classici, come la fiscalità verde, la regolazione ambientale e gli incentivi all’innovazione. Ma il mondo del 2025 è ben diverso.
La pandemia globale ha prima evidenziato la vulnerabilità delle catene di approvvigionamento. La guerra in Ucraina ha poi stravolto le politiche energetiche europee, mettendo fine all’illusione di una transizione ecologica basata su gas russo a basso costo. Infine, la competizione strategica tra Stati Uniti e Cina ha trasformato le tecnologie verdi ‒ dalle batterie ai pannelli solari, dalle turbine eoliche ai semiconduttori ‒ in veri e propri strumenti di potere geopolitico.
In questo contesto, l’Europa si è ritrovata stretta tra due fuochi: da un lato, l’ambizione di guidare la transizione ecologica globale; dall’altro, la necessità di preservare la propria sovranità industriale ed energetica. Il Green Deal, inizialmente disegnato come un piano idealistico, ha mostrato limiti strutturali proprio perché troppo concentrato sull’ambiente, trascurando le dimensioni economiche e sociali, e ignorando le nuove logiche di potenza.
Dal “verde” al “pulito”: ridefinire l’equilibrio della sostenibilità
È in questa crisi di visione che matura il passaggio da “green” a “clean”. Il termine “green” ha storicamente posto l’accento quasi esclusivamente sulla dimensione ambientale della sostenibilità, talvolta a scapito degli altri due pilastri fondamentali: quello economico e quello sociale. Si è trattato spesso di una sostenibilità verticale, focalizzata sulla decarbonizzazione e sulla protezione della natura, ma meno attenta agli effetti collaterali sulle imprese, sui lavoratori, sulle disuguaglianze territoriali.
Con il termine “clean”, invece, si cerca di costruire una sostenibilità più equilibrata e orizzontale, in cui l’ambiente resta centrale, ma viene affiancato da una maggiore attenzione all’industria, alla giustizia sociale, alla competitività e alla sicurezza economica. Non si parla solo di ridurre le emissioni, ma anche di creare valore, garantire posti di lavoro, evitare la deindustrializzazione, sostenere i territori fragili. Una sostenibilità più completa, meno dogmatica, più dialogica.
Il “clean” come risposta strategica alla crisi dell’autonomia europea
L’adozione del termine “clean” nei più recenti strumenti politici dell’UE ‒ dal Net-Zero Industry Act al Clean Tech Industrial Act ‒ risponde anche alla necessità di dotarsi di una strategia industriale autonoma. L’Unione, per reagire al protezionismo verde statunitense e all’espansionismo tecnologico cinese, ha compreso la necessità di una nuova postura: produrre in casa le tecnologie pulite, ridurre la dipendenza da paesi terzi, rafforzare l’industria europea.
“Clean” non è solo un termine tecnico: è una dichiarazione politica. Esso rappresenta una sostenibilità che non chiede solo sacrifici, ma offre anche opportunità; che non impone modelli unici, ma costruisce strategie flessibili; che non si basa solo su vincoli ambientali, ma su investimenti, innovazione, lavoro.
L'era della sostenibilità geostrategica
Il linguaggio clean introduce una nuova fase della sostenibilità europea: una sostenibilità geostrategica, in cui ambiente, industria e potere si intrecciano. Le scelte non sono più solo etiche o ecologiche, ma diventano atti di difesa degli interessi europei nel grande gioco della globalizzazione. Essere puliti oggi significa, per l’UE, non solo ridurre le emissioni, ma anche proteggere le proprie fabbriche, mantenere l’occupazione, investire in innovazione, ridurre la dipendenza da attori ostili.
Non è un caso che si parli sempre più di raw materials diplomacy, di friend-shoring, di critical supply chains. La geopolitica delle risorse ha spostato l’attenzione dai valori universali ai vantaggi competitivi, dalla transizione condivisa alla resilienza selettiva. La sostenibilità non è più un bene comune globale: è diventata una leva di potere.
Dal verde al pulito: un nuovo equilibrio tra ideali e interessi
Il cambiamento climatico continua a essere una delle sfide cruciali del nostro tempo. Ma è impossibile affrontarlo con approcci ideologici che ignorano le ricadute socioeconomiche delle decisioni ambientali. Il fallimento di alcune misure del Green Deal ‒ come la reazione degli agricoltori o le difficoltà del comparto automotive ‒ dimostra che serve una transizione giusta e concreta, che tenga conto delle peculiarità dei territori, delle capacità produttive e delle tensioni sociali.
La semantica è solo la punta dell’iceberg. Dietro il passaggio da green a clean si nasconde un ripensamento profondo: dalla sostenibilità come dovere morale, alla sostenibilità come scelta strategica. Il futuro dell’Europa si giocherà non solo sulla capacità di essere virtuosa, ma su quella di restare competitiva, sicura, e geopoliticamente rilevante in un mondo sempre più multipolare.
In copertina: dettaglio della Statua della libertà di Riga, in lettonia, immagine Envato