Mentre a Gaza l’esercito israeliano uccide quotidianamente decine di civili palestinesi, 648 solamente tra il 9 e il 16 luglio, chi sopravvive deve fare i conti con tutto ciò che manca o gli è negato: aiuti umanitari bloccati, infrastrutture idriche essenziali inaccessibili o distrutte, carenza di combustibili necessari a far funzionare ospedali, ambulanze, fornelli da cucina, desalinizzatori e telecomunicazioni.
Dal 18 marzo, l'esercito israeliano (IDF) ha emesso 55 ordini di evacuazione per oltre 300 chilometri quadrati della Striscia. Questo ha di fatto portato circa l’85% della Striscia di Gaza sotto controllo militare israeliano, rendendolo sostanzialmente inaccessibile a oltre 2 milioni di palestinesi.
Con l’ultimo ordine di evacuazione e l’attacco via terra di Deir el-Balah, città nel centro della Striscia sede delle agenzie ONU e di otto tra cliniche e ambulatori medici, le zone dove i gazawi possono rifugiarsi sono rimaste pochissime: lembi di terra a Sud e a Ovest della città di Gaza. Nonostante Israele le definisca safe zones (zone sicure) bombardamenti e sparatorie letali sono piuttosto frequenti.
La fame e la distribuzione di cibo “criminale” di Israele
A Sud della Striscia, non lontano dal confine con l’Egitto, sono concentrati tre dei quattro siti di distribuzione alimentare controllati dalla Gaza Humanitarian Foundation (GHF), un’organizzazione statunitense gestita dall’esercito israeliano che dal 27 maggio ha preso il controllo pressoché totale degli aiuti nella Striscia.
Accusata dalle organizzazioni umanitarie delle Nazioni Unite di umiliare e mettere in pericolo i civili in cerca di cibo, la GHF è gestita da soldati israeliani che, secondo un’inchiesta del quotidiano Haaretz, riceverebbero l’ordine di aprire il fuoco contro la folla che si avvicina ai punti di distribuzione.
“A oggi sono state uccise 1.054 persone che cercavano di procurarsi cibo, 766 si trovavano nelle vicinanze dei siti GHF”, ha dichiarato Thameen Al-Kheetan, portavoce dell’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite.
“La Gaza Humanitarian Foundation non rispetta assolutamente quelli che sono i princìpi umanitari”, dice Diego Regosa, coordinatore per le emergenze del CESVI, organizzazione umanitaria no profit, attiva a Gaza dal 1994. “Prima c’erano circa 400 punti di distribuzione che aiutavano le famiglie direttamente nel luogo del bisogno, secondo criteri di selezione dei beneficiari basati sulla vulnerabilità. Adesso le persone sono costrette ad attraversare chilometri di zone militarmente attive per un pacchetto di cibo, in un sistema in cui vige la legge del più forte.”
A giugno, un gruppo di 15 importanti organizzazioni per i diritti umani specializzate in diritto internazionale ha pubblicato una lettera aperta sollecitando la fine del sistema militarizzato della GHF, accusandolo di potenziale favoreggiamento o complicità in crimini di guerra o genocidio, in violazione del diritto internazionale.
In un briefing con i giornalisti sulla sua ultima visita a Gaza, il direttore operativo del World Food Programme Carl Skau ha dichiarato che circa 500.000 persone stanno soffrendo la fame. “Ho incontrato madri che raccontano di come cerchino di impedire ai figli di giocare, per evitare che consumino più energia di quanta riescano a ricavare dal poco cibo a disposizione", ha detto Skau.
Secondo l'ultimo rapporto dell’IPC, iniziativa a cui collaborano le più importanti organizzazioni internazionali sulla sicurezza alimentare, quasi due milioni di persone stanno affrontando una grave carenza di cibo.
Dopo il blocco degli aiuti umanitari imposto da Israele dal 2 marzo, gli enti come CESVI che operano sotto l’egida dell’ONU sono fortemente ostacolati dalla burocrazia israeliana. Oggi i pochi camion che riescono a transitare dal valico di Rafah trasportano derrate alimentari largamente insufficienti e vengono spesso saccheggiati.
L’acqua come arma di guerra
L'accesso all'acqua potabile è riconosciuto a livello internazionale come un diritto umano universale, che però i palestinesi, non solo di Gaza, non hanno mai potuto dare per scontato. Ma dall’attacco terroristico di Hamas dell’ottobre 2023 la situazione è drasticamente peggiorata.
L’esercito israeliano ha distrutto circa il 70% delle infrastrutture idriche di Gaza: circa 180 chilometri di reti idriche sono già stati completamente o parzialmente distrutti. Secondo un’analisi pubblicata a maggio dell’Al Mezan Center for Human Rights, da quando a marzo Israele ha bloccato l’accesso a ogni tipo di aiuto umanitario, tra cui carburanti e pezzi di ricambio per riparare le pipeline danneggiate, l’accesso all'acqua potabile è stato ridotto a soli 2-3 litri al giorno, appena sufficienti per la sopravvivenza di base e ben al di sotto della soglia minima stabilita dall'Organizzazione mondiale della sanità per soddisfare i bisogni essenziali di salute e igiene. Con l’intensificarsi dell’invasione oggi i litri a disposizione dei palestinesi sono probabilmente meno.
“Su 58 riserve d’acqua che la popolazione aveva a disposizione, 52 sono danneggiate o rese inaccessibili dall’IDF, lo stesso vale per 3/4 dei pozzi e delle strutture di gestione delle acque reflue”, commenta Regosa. Il CESVI si occupa di portare l’acqua con carri botte una volta ogni due giorni, installare cisterne di plastica da mille litri e latrine prefabbricate in metallo. Ma secondo Regosa sono solo “cerotti sui dei pazienti che hanno bisogno di interventi chirurgici importanti”.
Le organizzazioni umanitarie faticano a riparare i danni perché una serie di attrezzature, tra cui generatori, pannelli solari e batterie, rientrano nella lista nera dell’esercito israeliano, che ne impedisce l’accesso nella Striscia di Gaza perché li considera beni dual use, ovvero utilizzabili anche per “scopi bellici”.
Anche circa l’80% dei desalinizzatori, gli impianti che rendono potabile l’acqua di mare, sono inaccessibili o danneggiati. Ma anche se fossero tutti disponibili non potrebbero funzionare perché manca il carburante.
In assenza di carburante, a Gaza si brucia la plastica
Dopo 130 giorni di blocco totale all'ingresso del carburante nella Striscia, il 9 luglio le autorità israeliane hanno iniziato a permettere il passaggio di due camion di fuel al giorno. Secondo le analisi dell’ONU, si tratta di una quantità insufficiente per gestire i servizi essenziali a Gaza, dove ogni aspetto della vita dipende dal carburante: dagli ospedali ai sistemi idrici e igienico-sanitari, dalle ambulanze alle operazioni umanitarie, dalle telecomunicazioni ai panifici e alle cucine, fino al trasporto su strada.
Per ovviare alla carenza di carburante, gruppi di giovani palestinesi bruciano i rifiuti di plastica a cielo aperto per ricavare combustibile grezzo. Ma secondo una solida letteratura scientifica, la combustione incontrollata di plastica rilascia una miscela di particolato fine (PM 2.5 e PM 10), carbonio nero (black carbon), idrocarburi policiclici aromatici (PAH) e diossine: composti altamente tossici e cancerogeni, che penetrano nei polmoni e nel sistema cardiovascolare. Sono associati a malattie di vario genere, tra cui il cancro, e a problemi immunologici e difetti alla nascita. Inoltre la cenere derivante dalla combustione può contaminare il suolo su cui si coltiva cibo e le falde acquifere. Parallelamente, chi abita nella striscia di Gaza deve fare i conti anche con una grave crisi di rifiuti.
“Tutte le discariche storiche sono state chiuse”, dice Regosa. “C’era un grossissimo bacino di raccolta delle acque reflue che poi venivano condotte direttamente in mare, ma è stato svuotato sopra le tende per creare disagio.” Sono stati creati dei siti temporanei di smaltimento dove waste pickers locali portavano rifiuti, ma oltre la metà sono ormai inaccessibili.
Cibo, acqua, energia: gli elementi che definiscono un genocidio
Secondo numerosi giuristi e centri di ricerca specializzati in diritto internazionale, tra cui le scuole di legge statunitensi Cornell e Yale e l’università di Pretoria in Sud Africa, gli attacchi dell’esercito israeliano violano la Convenzione ONU sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio. “Nello specifico, Israele ha commesso atti genocidi uccidendo e infliggendo danni gravi e calcolati per provocare la distruzione fisica dei palestinesi a Gaza, un gruppo protetto che costituisce una parte sostanziale del popolo palestinese”, si legge nel report redatto nel maggio del 2024.
Una tesi confermata più volte anche dalle analisi di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sul territorio palestinese occupato, che è stata vittima di una campagna denigratoria orchestrata dal governo israeliano ed è attualmente sanzionata dagli Stati Uniti.
Eppure, la Convenzione sul genocidio impone agli stati firmatari, Italia inclusa, l’obbligo giuridico minimo di adottare misure per prevenire e punire atti di genocidio, per esempio interrompendo qualsiasi assistenza militare, compresa la vendita di armi, che possa consentire o agevolare il genocidio e altri crimini previsti dal diritto internazionale.
In copertina: la sede dell’UNWRA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente, di Gaza bombardata da Israele, foto di Khalid Kwaik via Unsplash