Da Belém - Ufficialmente dovrebbe essere uno spazio dedicato all’agricoltura sostenibile e all’innovazione tecnologica. Di fatto accoglie e dà voce a tutti gli attori dell’agribusiness, brasiliani e internazionali. Dopo che una parte del settore si era opposta alla decisione di ospitare la COP30 in Brasile, l'ente federale Embada, ovvero la Corporazione brasiliana per la ricerca agricola, ha deciso di organizzare un’area, poco distante dalla Blu Zone, dedicata interamente alle aziende dell'agroalimentare. Mentre associazioni, enti pubblici, imprese si contendevano come ogni anno uno spazio nella Green Zone, tutti i big dell'agribusiness sono stati invitati a partecipare, con padiglioni ed eventi, alla AgriZone o, come recita la scritta all'ingresso, alla "Casa da agricoltura sustentavel".

Chi finanzia l'AgriZone è in primo luogo la CNA (Confederação da Agricultura e Pecuária do Brasil) e poi i big dell'agribusiness: tra gli sponsor diamond compaiono Nestlé, Bayer e anche la Fondazione Gates, che in un panel presenta l'Africa come prossima nuova frontiera dell'agroindustria. Il programma degli eventi, però, è sterminato.

Una lobby allo scoperto

È la prima volta che a una Conferenza sul clima accade qualcosa di simile, denunciano gli attivisti: ci sono sempre stati molti eventi collaterali intorno alle COP, ma organizzati da privati. E, in buona parte, tenuti nella cosiddetta Green Zone. Qui l’anomalia è che l’AgriZone sia uno spazio messo in piedi da un ente pubblico con fondi che arrivano dai privati, cioè dalle aziende dell’agribusiness, uno dei settori più contestati in Brasile per le pratiche in uso, dalle monocolture alla deforestazione alla violazione dei diritti delle popolazioni indigene.

Società come la JBS (azienda brasiliana nel settore delle carni, ritenuta la più grande al mondo), Nestlé o Bayer (la seconda azienda produttrice di pesticidi al mondo) sono sempre ospiti fissi delle COP. Ma se lo scorso anno alla conferenza del clima di Baku tra le delegazioni nazionali si contavano oltre 200 lobbisti dell'agribusiness, per la maggior parte proprio provenienti dal Brasile, − 35 lobbisti del settore agricolo, tra cui oltre venti rappresentanti delle aziende di carne JBS, BRF e Marfrig, oltre a gruppi industriali come l'Associazione degli esportatori brasiliani di carne bovina, secondo dati DeSmog e The Guardian − quest'anno non c’è stato bisogno di nascondere la propria identità dietro a badge nazionali.

“Il Brasile, in generale, fin dal periodo coloniale, è stato l’unico paese controllato dai portoghesi nelle Americhe che ebbe nell’agricoltura la sua principale attività economica, con colture come la canna da zucchero, il cotone, il caffè e il lattice, tipico dell’Amazzonia”, dice a Materia Rinnovabile Valmir da Costa Albuquerque, presidente della Associação dos Pequenos Produtores Rurais e Moradores de Murutinga, attiva nello stato di Parà, quello di Belém. “Attualmente la monocultura continua a prosperare nei biomi del Pantanal e dell’Amazzonia, con soia, cotone e mais destinati al mercato di esportazione.”

Greenwashing e controversie

Il compito di AgriZone, nemmeno celato, è quello di demistificare l’idea che l’agribusiness sia sinonimo di deforestazione, sottolineano attivisti e associazioni. Del resto, i sistemi alimentari globali, secondo l'IPCC (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), sono responsabili di circa un terzo di tutte le emissioni di gas serra. Non ci sarà soluzione alla crisi climatica, dice l'ultimo rapporto dell’organismo scientifico della Nazioni Unite, senza riduzioni rapide delle emissioni del sistema alimentare e senza cambiamenti radicali nel modo in cui produciamo e consumiamo cibo.

Questa AgriZone sembra davvero una controffensiva dell'agribusiness: secondo un'analisi di DeSmog, pubblicata nei giorni scorsi, le grandi aziende del settore stanno intensificando una campagna per presentarsi come "soluzione" al cambiamento climatico, invece che responsabili, promuovendo concetti ambigui e tecnologie controverse.

Nel rapporto sono elencati diversi temi ai quali ricorrono le aziende per mettere in atto, di fatto, greenwashing, e a cui sono dedicati forum sia all'interno del programma di COP che tra i panel dell'AgriZone. I nomi sono invitanti e riflettono un accurato studio nella comunicazione: “Agricoltura tropicale” (agricoltura rigenerativa, compensazioni di carbonio); “Nessun riscaldamento aggiuntivo” (neutralità climatica, GWP per contare le emissioni); “Bioeconomia” (economia circolare, biogas, biocarburanti, socio-bioeconomia); “Nutriamo il mondo” (obiettivi di sviluppo sostenibile, nutrizione, "il Brasile è appena uscito dalla mappa della fame"); “Big Agri come progresso e sviluppo” (agroalimentare come una forza modernizzante in tutto il Sud del mondo); “L'efficienza è sufficiente”, o ancora: “I combustibili fossili sono il vero problema”. Si potrebbe proseguire. Qualche altro esempio? "Agricoltura lattiero-casearia a zero emissioni nette", "soia a basse emissioni di carbonio", come pubblicizza l’ente federale brasiliano Embrapa per rilanciare l'agroindustria “green” brasiliana nelle sue collaborazioni con Nestlé e con Bayer.

Il meccanismo ricorda quello messo in piedi negli anni dai lobbisti del petrolio che promuovono tecnologie "verdi”: le aziende dell'alimentare, accusate di essere collegate all'espansione della deforestazione, all'uso di pesticidi e alle emissioni di metano dell'allevamento, si presentano come parte della soluzione, anche se di fatto il loro ruolo è in primo luogo quello di chi alimenta i problemi strutturali.

Insomma, di sicuro questa AgriZone ha l’intento di creare una contro-narrativa rispetto a quella indigena della COP dell’Amazzonia. Quantomeno per controbilanciarla. Ma per il potere che ha il settore in Brasile (che sposta consensi e voti, e Lula stesso era stato arrestato anche per tangenti legati all'agribusiness), questo spazio rappresenta un messaggio politico preciso: non abbiamo bisogno di infiltrarci nella Blue Zone, come i lobbisti del petrolio: qui siamo a casa nostra, dove agiamo allo scoperto. E, una volta spenti i riflettori, non resteremo in un angolo. Anzi.

AgriZone: aziende presenti e programma

Tanti i nomi presenti tra i padiglioni di AgriZone: PepsiCo e i colossi agrochimici Bayer e Yara, gruppi di lobby del settore come CropLife (associazione internazionale per le aziende che si occupano di pesticidi, sementi, biotecnologie agricole) la cui missione ufficiale, si legge sulla homepage del suo sito web, è “guidare l’innovazione per una agricoltura sostenibile”. Ancora, l'US Dairy Export Council, organizzazione no profit che rappresenta gli interessi commerciali dell’industria lattiero-casearia statunitense e le esportazioni di latte Made in USA, e Netafim, un'azienda israeliana di irrigazione segnalata dal relatore speciale delle Nazioni Unite per il suo coinvolgimento nell'occupazione illegale di terre palestinesi.

Dall’altra parte ci sono i numeri. In vista della COP30, Foodrise, Friends of the Earth U.S., Greenpeace Nordic e Institute for Agriculture and Trade Policy hanno pubblicato un’analisi indipendente di 50 pagine sulla zootecnia industriale, Roasting the Planet: Big Meat and Dairy’s Big Emissions: tra il 2022 e il 2023 le 45 principali multinazionali della carne e del latte hanno prodotto oltre 1,02 miliardi di tonnellate di gas serra, più dell’intera Arabia Saudita, sottolinea la ricerca.

Lo studio ha rilevato che i cinque maggiori emettitori di questo gruppo – JBS, Marfrig, Tyson, Minerva e Cargill – hanno prodotto insieme, nella filiera che va dall'allevamento alla produzione, circa 480 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra (CO₂ equivalenti), in prevalenza metano, superando le emissioni registrate da grandi compagnie petrolifere come Chevron, Shell o BP.

Oltre la metà delle emissioni è costituito da metano, il gas più potente nel breve periodo e decisivo per restare vicini agli 1,5°C, come ha confermato il primo rapporto sullo stato globale del metano dell’UNEP (il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), pubblicato proprio in questi giorni: le emissioni sono ancora in aumento, anche se a un ritmo più contenuto rispetto al passato, e i paesi devono fare molto di più per rispettare l’impegno di ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020.

Il progetto Caminho Verde Brasil

Proprio a un’altra COP, quella di Dubai, con il Brasile appena scelto per ospitare la COP30, il governo brasiliano annunciò una partnership pubblico-privata da 100 miliardi di dollari per convertire 40 milioni di ettari di pascoli degradati in monocolture di soia, canna da zucchero e altre colture da esportazione.

L'obiettivo “green” dichiarato era quello di ripristinare, con queste coltivazioni, il carbonio nel suolo e di dare la possibilità alle aziende di tutto il mondo di investire in queste terre per compensare le proprie emissioni di combustibili fossili. Da allora, il governo brasiliano ha inviato missioni in tutto il mondo, da Riyadh ad Abu Dhabi, da Pechino all’Europa, a caccia di investitori stranieri per il progetto, che si chiama ora Caminho Verde Brasil.

Il fondo sovrano saudita Salic ha dichiarato il suo interesse nel programma: l’ultima missione del governo di Brasilia risalirebbe a inizio 2025. Il fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti, Mubadala, attraverso una filiale brasiliana, sta piantando proprio in quelle terre, nel Cerrado, la savana tropicale del Brasile, zona unica al mondo per la sua biodiversità, 180.000 ettari di alberi di macaúba per produrre biocarburanti per aerei a reazione (biocarburante spesso pubblicizzato sui media emiratini).

Secondo la ONG Grain, che da decenni lavora per sostenere i piccoli agricoltori e preservare la biodiversità, anche grandi istituti di credito agroalimentari avrebbero aderito al progetto Caminho Verde Brasil. Come la Rabobank olandese e la brasiliana BTG, che stanno acquistando terreni per piantagioni di alberi per produrre crediti di carbonio per Microsoft. “Sostenere un’agricoltura senza deforestazione, per il bioma del Cerrado”, afferma Rabobank.

Per non parlare degli interessi nel settore dell’allevamento. L'azienda brasiliana di trasformazione della carne BRF e la Halal Products Development Company (HPDC), una sussidiaria del Fondo di investimento pubblico (PIF) saudita, hanno annunciato ad aprile un investimento di 160 milioni di dollari in un nuovo stabilimento alimentare in Arabia Saudita. L'impianto dovrebbe entrare in funzione a metà del 2026, a Jeddah, attraverso una vera e propria joint venture tra BRF e HPDC, BRF Arabia Holding Company.

“Caminho Verde Brasil è un'iniziativa strategica del governo federale che mira a promuovere il recupero ambientale e la produttività nel settore agricolo attraverso il ripristino di aree degradate e la promozione di pratiche sostenibili”, dice il Ministero dell’agricoltura e dell’allevamento brasiliano. Attualmente, il Brasile ha circa 280 milioni di ettari dedicati all'agricoltura, di cui 165 milioni sono pascoli, con circa 82 milioni di ettari in qualche modo degradati. La proposta del programma è di recuperare fino a 40 milioni di ettari di pascoli a bassa produttività nei prossimi dieci anni, convertendo queste aree “in terreni coltivabili ad alto rendimento senza la necessità di deforestazione”, sottolinea il Ministero. La partita per trovare investitori internazionali “interessati a promuovere lo sviluppo sostenibile” è aperta. E AgriZone, al quale hanno partecipato delegazioni di governi da tutto il mondo, serve anche a questo.

Il punto di vista degli attivisti

Durante la COP30 di Belém, il tema dell’agribusiness è stato centrale, come detto. Le rivendicazioni degli attivisti delle ONG erano presenti in ogni angolo tra i corridoi, e anche nella grande manifestazione di sabato 15 ottobre, la prima da Glasgow in una conferenza ONU sul clima. Le posizioni riflettono un ampio ventaglio di gradazioni. Anna Cárcamo, esperta di politiche climatiche di Greenpeace, ritiene che spazi come AgriZone tendano a influenzare i negoziati in modo sottile: "Di per sé, questi spazi non determinano i risultati della COP, ma le pressioni esercitate dai principali settori economici hanno un peso notevole". Cárcamo esorta le Nazioni Unite e gli organizzatori della COP a stabilire regole più chiare per prevenire conflitti di interesse e indebite influenze da parte di stakeholder con interessi commerciali nei negoziati.

Ma c’è chi è più deciso. Per Valmir da Costa Albuquerque, “negli ultimi vent’anni, ciò che abbiamo osservato in vari biomi brasiliani, in particolare nel Cerrado e nell’Amazzonia, è stato l’avanzamento incontrollato dell’agribusiness, con la continua monocultura di soia, dendê, allevamento di bestiame da carne e l’estrazione mineraria clandestina che avanza all’interno della foresta, occupando terre di proprietà dello stato e delle comunità tradizionali, causando enormi e irreparabili danni, come la contaminazione dei fiumi da metalli pesanti, alterando la catena produttiva che sostiene i popoli della foresta. Durante la seconda settimana della conferenza del clima, si è assistito all’appello dei popoli della foresta in difesa delle proprie terre, della propria gente e della vita, con cortei di barche sui fiumi e manifestazioni per le strade”.

Wanun Permpibul, di Climate Watch Thailand, spiega che "quando la grande agricoltura domina la discussione, le voci delle comunità in prima linea − in particolare i piccoli agricoltori, le popolazioni indigene, le donne e i produttori alimentari locali − vengono sistematicamente escluse. Eppure queste sono le persone che vivono in armonia con la natura da generazioni, utilizzando le conoscenze tradizionali per gestire gli ecosistemi, preservare la biodiversità e sostenere i sistemi alimentari locali".

Ma anche per strada si parla di agribusiness. L’identità dello stato di Parà, di cui Belém la è capitale, è forte: poco conosciuto anche dai brasiliani, che lo considerano arretrato, gli abitanti si sentono amazzonici, e vivono i problemi della deforestazione e della pressione delle aziende. “Qui, principalmente in Pará, abbiamo i popoli originari, molti afro-discendenti, insomma, una grande varietà”, dice Cecilia, 53 anni, che lavora come musicista e danzatrice. La incontriamo una sera in uno dei tanti bar della Cidade Velha, dove ha appena finito di esibirsi col suo gruppo e si rilassa con un succo di mango. “Per me le negoziazioni diplomatiche sono importanti, ma la vera COP30 si sta svolgendo al di fuori della Blue Zone. La conferenza del clima, questa volta, è per strada.” E ha cambiato la città, portando infrastrutture nuove di zecca, oltre a una contestatissima strada accusata di essere stata creata disboscando.

È l’eterna contraddizione tra sviluppo e ambientalismo. Si dice anche che alcune famiglie siano state sfrattate per far posto agli alloggi, che in città erano pochi. Non abbiamo potuto verificare la voce. Di certo, la città si è data una mano di vernice. E la conferenza ha portato energia. La proprietaria del locale Pimienta da Cuia, Selma, è chiara: “Questo è uno spazio di resistenza, contro l’aggressione del capitalismo. Lotteremo fino in fondo per difendere la nostra terra, quella che ci dà i prodotti che cuciniamo per i nostri piatti”. A guardarla, c’è da crederle.

Nestlé, con cui sono stati avviati contatti durante la stesura di questo pezzo, non ha dato seguito alla nostra richiesta di intervista.

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In copertina: AgriZone © Embrapa @guilemosph-40