“È altamente probabile che molti dei problemi che infettano il mercato dei crediti di carbonio siano irrisolvibili, […] problemi sistemici, dalle radici profonde, che non potranno essere risolti da cambiamenti incrementali.”

Recitano così le conclusioni di un recente articolo scientifico sui problemi dei mercati di crediti di carbonio pubblicato dai tre ricercatori Joseph Romm, Stephen Lezak e Amna Alshamsi. Lo studio, dal titolo L’offsetting può essere riparato?, è uscito su Annual Reviews of Environment and Resources e ha avuto discreta risonanza mediatica, principalmente perché a una prima lettura potrebbe sembrare che la risposta alla domanda posta dal titolo sia, banalmente, “no”. Nel corpo dell’articolo, tuttavia, la ricerca dei tre studiosi offre una panoramica ampia e meno binaria, tutto sommato in linea con le attuali discussioni sull'integrità dei crediti a livello internazionale.

Lo studio di Romm e colleghi consiste in una revisione sistematica della letteratura scientifica sul tema dei crediti di carbonio e dei principali problemi legati all'integrità dei crediti. Vengono analizzate le principali cause del collasso del mercato dei crediti a partire dagli scandali del 2023, che lo hanno portato a un volume commerciale globale ormai stabilmente inferiore al miliardo di dollari, contro stime del 2021 che vedevano doppie cifre già entro il 2030.

Lo studio evidenzia che i problemi che negli anni hanno aggredito i mercati volontari sono presenti in diverse forme lungo l’intera catena di valore del credito, dall’ideazione del progetto alla rivendita sui mercati secondari. Negli anni si sono susseguiti casi di overcrediting legati a errori più o meno dolosi nell’ideazione dei progetti, capaci di assorbire o ridurre molta meno CO₂ o metano di quanto dichiarato. Non solo: per molti progetti è risultato complesso mettere in piedi meccanismi di monitoraggio sul breve, medio e lungo periodo, senza quindi garantire che l’azione climatica specifica potesse permanere nel tempo secondo quanto concordato. Altro tema chiave, infine, quello della addizionalità dei progetti stessi, ovvero del riuscire a garantire pubblicamente che l’azione promossa non sarebbe avvenuta senza l’intervento (economico) del progetto in questione.

Ma occorre non buttare il bambino con l’acqua sporca. A dispetto di un titolo catchy e della formulazione di quel paragrafo di conclusioni, l’articolo indica quali scelte (politiche e di mercato) potrebbero tenere in vita il settore e renderlo uno strumento utile all’azione climatica più che un mero prodotto finanziario.

In linea con il trend della discussione politica globale sull’argomento, Romm e colleghi consigliano di concentrarsi sui crediti ad alta integrità pur senza offrire, in questa sede, una proposta di definizione e passando inoltre da un approccio compensativo (offsetting) a uno di contribuzione aggiuntiva.

L’offsetting residuo e di alta qualità dovrebbe concentrarsi, per i tre, sui progetti di rimozione di carbonio ad alta permanenza, quelle soluzioni ad alta tecnologia capaci di stoccare CO₂ in maniera stabile, come la cattura diretta, a oggi molto costose e difficili da potenziare a livelli di scala. Non solo: applicando anche il filtro dell'addizionalità, ecco che gli unici tipi di progetti che potrebbero davvero avere ancora un impatto sarebbero, oltre alle rimozioni di durata secolare, i progetti di sostituzione dell’uso del carbone nella preparazione dei pasti e gli assorbimenti di metano dalla materia organica, se debitamente supportati da metodologie e registri di alto dettaglio.

Considerati invece superati sono i progetti sull’energia rinnovabile, resi oggi obsoleti da costi di costruzione sensibilmente più bassi che in passato, e quindi difficilmente giustificabili come addizionali. Dubbi vengono infine sollevati rispetto all’effettiva utilità climatica, sul lungo periodo, dei progetti di cattura e stoccaggio industriali (CCS) finanziati da crediti, vista la quasi impossibilità tecnica di riassorbire tutte le emissioni di quegli stessi settori.

Infine, i tre studiosi raccomandano di applicare in ogni caso i debiti aggiustamenti tra registri nazionali nel caso di trasferimenti internazionali di crediti, così da non intaccare l’ambizione dell’Accordo di Parigi e infine − forse qui la nota dolente per molti sviluppatori di progetti − di abbandonare ogni residuo progetto “non-CDR” (ossia non relativo alla rimozione di CO₂ dall’atmosfera) entro il 2035, visti i problemi strutturali di addizionalità e permanenza di cui sopra.

In un contesto di crescente frammentazione dei mercati dei crediti a livello globale, una door selection per i crediti − oggi nuovamente appetibili anche per molti sistemi pubblici − si fa sempre più necessaria. L’articolo di Romm e colleghi – che, ricordiamolo, rivede e sintetizza almeno due decenni di studi, in un settore tuttavia in rapido movimento metodologico − sottolinea l’urgenza di investire in alcuni tipi di crediti piuttosto che in altri, e in regole più solide per il settore. Ma a una lettura attenta, come visto, la risposta alla domanda posta dal titolo − l’offsetting può essere riparato? − sembra essere ancora: “Sì, se fatto bene”.

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In copertina: immagine Envato