La trentesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si svolge in un luogo che è insieme simbolo e campo di battaglia della crisi in corso: l’Amazzonia. La foresta, patrimonio di biodiversità e regolatrice essenziale del clima, è da tempo terreno di conquista dell’agrobusiness globale, con ettari di verde che ogni giorno vengono erosi dall’espansione dei pascoli bovini e dalle coltivazioni di soia destinate ai mercati internazionali. Una contraddizione che i popoli indigeni, riuniti nella Cúpula e nell’Embaxiada dos Povos, non hanno mancato di sottolineare.
Gli interessi corporativi del settore agroalimentare sono di casa alla COP di Belém, con una presenza più massiccia che mai. Negli ultimi quattro anni, il numero di rappresentanti legati all’agrobusiness presenti ai summit climatici è quasi triplicato. Così, mentre la scienza conferma che il sistema alimentare industriale è responsabile di circa un terzo delle emissioni globali di gas serra (in continuo aumento), le grandi multinazionali del settore continuano a presentarsi come parte della soluzione, quando in realtà alimentano il problema e ne aggravano le conseguenze.
Queste stesse imprese investono centinaia di milioni di dollari in lobbying per bloccare regolazioni ambientali e sanitarie. È la stessa strategia già vista con le compagnie petrolifere: negare, ritardare, confondere. Con la differenza che le attività di lobby di “Big Meat” hanno un budget ancora di più alto (in proporzione) a quello di “Big Oil”. E i risultati si vedono: alla COP di Baku abbiamo già sperimentato quanto siano efficaci queste azioni nel plasmare gli esiti dei negoziati.
Belém diventa così il simbolo di una battaglia più ampia: da un lato, i popoli indigeni e i movimenti sociali che difendono la foresta e i diritti dei piccoli produttori; dall’altro, i colossi dell’agrobusiness che, attraverso lobbying e accordi commerciali come il Mercosur, cercano di consolidare un modello estrattivista, predatorio e distruttivo.
In Brasile, l’agricoltura intensiva e il cambio d’uso del suolo pesano per oltre il 70% delle emissioni nazionali. Colossi come JBS e Marfrig incarnano un modello che deforesta, concentra ricchezza e marginalizza i piccoli produttori. Non sorprende che le richieste dei giganti dell’agricoltura brasiliana puntino a “tropicalizzare” le metriche sulle emissioni, minimizzando l’impatto del metano, o a ottenere crediti per progetti di cattura del carbonio nel suolo, una soluzione che piace molto all’industria ma che la scienza giudica insufficiente a compensare l’impronta crescente del settore.
È in questo contesto che prendono corpo la Cúpula e l’Emaxiada dos Povos, la “contro-COP” dei popoli indigeni e dei movimenti sociali. E non a caso la Marcia globale per il clima, che ha attraversato Belém il 16 novembre, è stata una delle manifestazioni per il clima più partecipate degli ultimi anni. La città è stata animata da una mobilitazione senza precedenti: circa cinquantamila persone hanno riempito le strade, in una marcia che ha visto sfilare insieme popolazioni indigene, attivisti e cittadini provenienti da tutto il mondo, uniti dalla richiesta di giustizia climatica e dalla difesa dell’Amazzonia. Al centro della mobilitazione, ancora una volta, le comunità indigene, che hanno ribadito il loro ruolo di custodi della foresta e la necessità di essere ascoltate nei negoziati internazionali.
Nella “controCOP” si denuncia con forza il legame tra le grandi multinazionali dell’agroalimentare e accordi commerciali come il Mercosur, che gli attivisti di Via Campesina definiscono un “regalo all’agrobusiness” e una minaccia ai diritti dei contadini e alla natura. L’accordo, contro il quale mi sto battendo assieme al Gruppo dei Verdi al Parlamento europeo, spalanca le porte ai grandi esportatori di carne e soia, mentre i piccoli produttori restano esclusi dai circuiti internazionali. Il risultato è una competizione sleale che mette in difficoltà le produzioni europee, costrette a confrontarsi con sistemi meno sostenibili e meno tutelati.
Dietro l’agrobusiness non ci sono solo gli allevatori intensivi, ma un intero sistema di servizi e forniture: sementi brevettate, mangimi, fitofarmaci, pellami. Più si spingono accordi basati su grandi volumi, più si rafforza questa filiera, che concentra potere e marginalizza chi produce in modo sostenibile. Non è un caso che la speculazione sulle commodity agricole abbia aggravato crisi come quella ucraina: il problema non era la mancanza di grano, ma la sua trasformazione in uno strumento di speculazione finanziaria.
Opporsi al Mercosur significa dunque aprire la strada a un altro modo di fare commercio, basato sul rispetto dei popoli e dell’ambiente. La proposta di Via Campesina e della Cúpula dos Povos va in questa direzione: costruire accordi che tutelino i diritti dei contadini, la sovranità alimentare e la biodiversità, invece di favorire l’espansione di modelli intensivi e distruttivi.
Come Verdi, ci stiamo muovendo su più fronti. A Bruxelles, insieme a 145 europarlamentari di diversi gruppi politici, abbiamo chiesto un parere alla Corte di giustizia dell’Unione Europea sulla compatibilità dell’accordo UE-Mercosur con i Trattati europei. È un passaggio fondamentale: se la Corte dovesse esprimere un giudizio negativo, l’accordo sarebbe definitivamente bloccato. Ci opponiamo al Mercosur perché mette a rischio la salute pubblica e la sicurezza alimentare, aprendo la porta a fitofarmaci vietati in Europa e a carni trattate con ormoni.
Ma non ci fermiamo qui. Vogliamo smascherare l’ipocrisia dei doppi standard sui prodotti fitosanitari: attualmente, l’Europa vieta l’uso sul nostro territorio di prodotti neurotossici e nocivi per la salute, ma ne permette la produzione e l’esportazione verso paesi terzi, da cui poi gli alimenti trattati e “ripuliti” con lavaggi chimici vengono importati nei paesi europei.
Un viaggio avanti e indietro attraverso l’oceano Atlantico che ha dell’incredibile, ed è assolutamente inaccettabile: se qui un fitofarmaco è vietato perché pericoloso per la salute, rimane pericoloso anche in Sudamerica. Non possiamo considerare i braccianti e i contadini brasiliani o argentini esseri umani di serie B. Per questo, la nostra proposta è chiara: vietare non solo l’uso interno, ma anche l’export di questi prodotti. Una scelta che va compiuta al più presto, perché la situazione sta peggiorando. Nonostante le promesse della Commissione europea di porre fine a questa pratica, l’export dall’UE di prodotti fitosanitari vietati è addirittura aumentato del 50% dal 2018, raggiungendo le 122.000 tonnellate nel 2024.
La Cúpula dos Povos e le manifestazioni promosse dai popoli indigeni in questi giorni a Belém ci ricordano che la COP non è solo una questione di accordi tra stati, di numeri e tecnicismi, ma di giustizia sociale e ambientale. Difendere l’Amazzonia significa difendere i diritti dei popoli indigeni, dei piccoli produttori e, al tempo stesso, dei cittadini europei che chiedono cibo sano e sicuro. Significa opporsi a un modello di sviluppo che concentra il potere e distrugge le risorse della comunità.
Il futuro dell’agricoltura non può essere lasciato nelle mani dell’agrobusiness. Serve un cambio di paradigma: dalla speculazione alla sovranità alimentare, dall’intensivo all’agroecologia, dal profitto dei pochi al benessere dei molti. Smettendo di guardare solo al profitto, che negli accordi di libero scambio è sempre a geometria variabile. E difendendo invece un modello di commercio che rispetti e tuteli il lavoro di chi coltiva la terra e produce il cibo in tutto il mondo. Per noi, questo è un pilastro della sicurezza e della sovranità alimentare per le comunità locali, per i paesi e, in definitiva, a livello globale. È questa la sfida che portiamo avanti, dentro e fuori le istituzioni, insieme ai movimenti che a Belém alzano la voce per un altro mondo possibile.
In copertina: Sonia Guajajara, ministra brasiliana per le comunità indigene, partecipa alla Marcia globale alla COP30. Foto di Hermes Caruzo/COP30
