Non c’è silenzio più inquietante di quello che segue un’esplosione. È un silenzio che non riguarda solo ciò che la guerra sottrae alla vita umana, ma anche ciò che sottrae alla natura: foreste trasformate in cenere, campi ridotti a polvere, corsi d’acqua contaminati dal passaggio dei mezzi militari e dalle armi. In Ucraina questo silenzio ha una data, il 24 febbraio 2022, ma anche un’eco che si estende oltre il presente.

Le guerre non finiscono quando tacciono le armi: continuano a produrre danni per decenni, spesso lontano dagli occhi e dalle priorità geopolitiche del momento. È in questa consapevolezza che si inserisce un evento senza precedenti: l’Ucraina intende chiedere alla Russia 43 miliardi di dollari di compensazione climatica.

Che Kiev volesse avanzare questa richiesta era già noto, ma oggi, martedì 18 novembre, ha per la prima volta reso pubblica anche la cifra. Non si tratta di un generico risarcimento per danni ambientali, ma di una contabilizzazione precisa delle emissioni di gas serra generate dall’aggressione, alle quali viene applicato il “costo sociale del carbonio”, il parametro utilizzato negli studi climatici per valutare gli impatti economici del riscaldamento globale.

Il significato storico di questa richiesta non è solo tecnico, ma giuridico e politico. Per la prima volta un paese aggredito sostiene che uno stato aggressore debba rispondere delle emissioni causate da un atto di guerra illegale, e il meccanismo internazionale a cui Kiev si rivolgerà − istituito dal Consiglio d’Europa dopo una risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU − accetterà per la prima volta richieste di risarcimento ambientale fondate sul danno climatico. La domanda che l’Ucraina presenterà, nel 2026, diventerà così un importante precedente per altri paesi.

Come l’Ucraina ha quantificato i danni ambientali della guerra

La richiesta si fonda sul report Climate Damage Caused by Russia’s War in Ukraine – 36 months, un lavoro pionieristico che quantifica le emissioni generate dal conflitto: 294 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente. Un numero che, da solo, supera le emissioni annuali di 175 paesi al mondo.

L’analisi distingue categorie diverse − operazioni militari, incendi, distruzione di infrastrutture, costruzione di fortificazioni, perdita di capacità di assorbimento del carbonio − offrendo una fotografia nuova e fino a oggi assente nei contesti di guerra. Non è un caso che l’Ucraina abbia deciso di presentare l’iniziativa a Belém, alla COP30. Da oggi le conseguenze della guerra sono così tessute a trama fitta con tutte le altre che concorrono ai cambiamenti climatici.

Proprio perché questa fotografia è nuova, è importante comprendere come è stata scattata. Il report utilizza una metodologia che combina fonti satellitari, rilevazioni sul campo, dati energetici, inventari industriali e strumenti di contabilità del carbonio normalmente riservati ai bilanci nazionali delle emissioni. Ogni categoria che può produrre gas serra viene analizzata con criteri coerenti agli standard internazionali: il consumo di carburante dei mezzi militari viene stimato come avviene nei settori dei trasporti; gli incendi boschivi sono calcolati con algoritmi utilizzati abitualmente per gli studi sulla biomassa bruciata; il carbonio “intrappolato” negli edifici distrutti si basa sugli stessi fattori impiegati per valutare l’impronta climatica del settore edilizio. A tutte queste voci viene applicato un costo sociale del carbonio di 185 dollari per tonnellata, in linea con i modelli economici più diffusi.

È un approccio che ha due conseguenze: la prima è che ogni voce del danno climatico è misurata con criteri coerenti con gli standard usati per i bilanci nazionali delle emissioni, senza scorciatoie né stime approssimative. La seconda è che il metodo può essere replicato altrove − in Siria, nello Yemen, a Gaza − aprendo la strada a una possibile contabilità globale dei costi climatici della guerra. Non più valutazioni generiche, ma numeri verificabili, comparabili e, soprattutto, utilizzabili in sede legale.

I danni maggiori da incendi e distruzione di edifici

All’interno di questo bilancio emissivo, un dato spicca più di tutti: la distruzione di edifici e infrastrutture civili è la principale fonte di emissioni del conflitto, con 43 milioni di tonnellate di CO₂. Più dei movimenti delle truppe. Più degli incendi. Più delle esplosioni. La ragione è strutturale: cemento, acciaio, calcestruzzo, vetro sono materiali prodotti con processi industriali ad altissima intensità energetica. Contengono, per così dire, carbonio “incorporato”. Quando un edificio crolla, tutta questa CO₂ viene rilasciata nell’atmosfera in un solo istante. A essere colpite non sono solo abitazioni e condomìni, ma infrastrutture energetiche, impianti industriali, ponti, ferrovie: veri e propri serbatoi di carbonio latente. È per questo che il report sottolinea che “la distruzione del costruito rappresenta la categoria emissiva più pesante dell’intero conflitto”.

La seconda grande voce riguarda gli incendi. Le fiamme, innescate soprattutto dai bombardamenti, hanno coinvolto foreste, zone umide, riserve naturali e parchi nazionali, rilasciando quasi 22 milioni di tonnellate di CO₂. Qui il danno è duplice: si libera immediatamente il carbonio accumulato negli ecosistemi e, allo stesso tempo, se ne compromette la capacità futura di assorbirlo. È un meccanismo che prolunga gli effetti della guerra per anni, anche a conflitto cessato.

Nel caso dell’Ucraina il danno è particolarmente grave: il paese ospitava un terzo della biodiversità europea. Steppe, boschi misti, zone umide e habitat unici, come i pendii di gesso del Donbass, erano serbatoi naturali di carbonio e biodiversità. Molti di questi ecosistemi hanno subìto danni irreversibili.

Il report stima che la perdita di capacità di assorbimento del carbonio − solo per quanto riguarda foreste e terreni agricoli − equivalga a milioni di tonnellate di CO₂ ogni anno. L’Ucraina era “il granaio d’Europa”, grazie al černozëm, un suolo nero e fertile che non esiste altrove. Oggi vaste aree di quel suolo sono bruciate, contaminate, irrecuperabili. Un terzo della terra ucraina è ormai incoltivabile; fino al 40% dei terreni agricoli non è più utilizzabile. È una perdita che pesa sul paese ma anche sul continente, perché il suolo è la radice della sicurezza alimentare europea. Una ferita che continuerà a sanguinare per decenni.

Il paradosso della ricostruzione e il reato di ecocidio

A tutto questo si aggiunge un ulteriore paradosso: la ricostruzione. Se l’Ucraina ricostruisse con materiali e tecnologie convenzionali, la ricostruzione stessa genererebbe 97 milioni di tonnellate di CO₂. Quasi quanto i primi due anni di guerra. Da qui la scelta politica di orientare la ricostruzione verso criteri di sostenibilità: edifici efficienti, materiali a basse emissioni, infrastrutture resilienti. Una ricostruzione che non perpetui il ciclo di carbonio che la guerra ha spezzato con tanta violenza, e nel documento presentato alla COP30 si dà ampio spazio proprio a come l’Ucraina intenderà usare i soldi dei risarcimenti per ricostruire le città con tecnologie green.

Non è un caso che proprio l’Ucraina sia la protagonista di questa svolta. È il paese di Chernobyl, della terra resa sterile in una notte, dei boschi bruciati che oggi mascherano la radioattività con un verde menzognero. È un paese che ha imparato prima di altri che la terra può morire, e che la sua morte non è una ferita passeggera, ma una condanna.

Non stupisce allora che l’Ucraina sia anche uno dei pochissimi stati al mondo − insieme alla stessa Russia − ad aver introdotto nel proprio codice penale il reato di ecocidio. Dal 2001 punisce con pene fino a quindici anni chi provoca danni ambientali vasti, gravi e duraturi. Nessuno immaginava che quella norma, nata come monito post Chernobyl, sarebbe diventata oggi la lente attraverso cui leggere migliaia di crimini ambientali in corso: foreste incendiate, suoli contaminati dalle esplosioni, acque avvelenate dopo la distruzione della diga di Nova Kakhovka, che ha diffuso nelle falde e nei corsi d’acqua metalli pesanti e sostanze tossiche, parchi nazionali devastati, ecosistemi millenari cancellati in un anno. Sono danni che dureranno generazioni, indipendentemente dal risultato della guerra o dagli esiti delle richieste di risarcimento.

L’Ucraina come precedente storico

Il reato di ecocidio non si può applicare a un soggetto straniero, però, forte di questa legge, l’Ucraina ha creato una vera e propria task force ambientale, un esercito civile di scienziati, attivisti, magistrati, 18.000 persone che mappano, denunciano, analizzano. È il più grande database di danni ambientali mai costruito in tempo di guerra. Sono loro ad aver campionato acqua, terra, vegetazione, per dimostrare il danno ambientale scatenato dalla guerra. Per molti giuristi la richiesta ucraina rappresenta il seme di un possibile futuro: l’inclusione dell’ecocidio tra i crimini perseguibili dalla Corte penale internazionale, accanto al genocidio e ai crimini di guerra.

“Alcune parti della nostra natura sono perse per sempre”, ha dichiarato il ministro dell’ambiente ucraino Ruslan Strilets. Non è una frase retorica: è la constatazione di un paese che conosce bene, fin da Chernobyl, cosa significa quando la terra cessa di essere fertile, quando un ecosistema non torna più quello di prima.

Il significato più ampio della richiesta ucraina è questo: la guerra non è solo una questione di confini o di geopolitica, ma anche una questione climatica. La distruzione del clima non è un effetto collaterale, ma un fronte del conflitto. Se questo principio verrà riconosciuto, potrebbe cambiare il modo in cui i conflitti vengono valutati, sanzionati e ricostruiti.

Per la prima volta, la natura entra nei tribunali come soggetto leso e non solo come sfondo delle ostilità. Quando Kiev presenterà la sua richiesta nel 2026, non sarà un atto contabile. Sarà l’inizio di un dibattito globale sul ruolo dell’ambiente nei conflitti e sulle responsabilità climatiche degli stati.

 

In copertina: la statua della Madre Patria Ucraina / Flickr