Le terre morte non dimenticano. Registrano ogni bomba, ogni contaminante, ogni ettaro bruciato come strati geologici di violenza. Sono gli archivi più accurati della guerra, più affidabili dei rapporti militari. E, mentre i diplomatici discutono di cessate il fuoco, la terra non aspetta. Continua a morire, silenziosa, senza tregua possibile. Quando la guerra finisce, i soldati tornano a casa. Il suolo contaminato resta. 

È con questa chiarezza, senza mezzi termini, che la direttrice esecutiva dell’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, Inger Andersen, ha parlato all’ONU in occasione della giornata internazionale per prevenire lo sfruttamento dell’ambiente in guerra e conflitti armati. E il suo discorso è stato puntellato da numeri inequivocabili: a Gaza, dal 2023, sono scomparsi il 97% delle colture arboree, il 95% degli arbusti, l’82% delle colture annuali. L’acqua è contaminata da munizioni e liquami. Sessantuno milioni di tonnellate di detriti aspettano di essere rimossi, prima che la contaminazione diventi irreversibile. 

In Siria la distruzione della diga di Kakhovka ha allagato più di 600 chilometri quadrati di terreno. Ad Haiti l’erosione e l’inquinamento delle acque minacciano di far esplodere di nuovo il colera. Ecco cosa resta dei conflitti quando le armi si spengono. Ecco cosa sta accadendo a Gaza e ovunque ci sia oggi una guerra. 

Andersen parla di un “nuovo circolo vizioso” che si sta affermando sotto i nostri occhi: l’ambiente diventa sia vittima che vettore dell’insicurezza globale. Il cambiamento climatico non è più solo una crisi separata dalle altre. È un fattore che si aggiunge alle tensioni religiose, etniche o territoriali, le avvelena e fa precipitare tutto. Dalle pianure del Sahel agli altopiani afghani, la scarsità d’acqua, la perdita di raccolti e gli incendi boschivi stanno causando massicci sfollamenti e nuove rivalità. 

La devastazione continua anche quando il mondo ha smesso di guardarla. In Sierra Leone le armi tacciono dal 2002, dopo dieci anni di conflitti, ma le foreste primarie e la savana, come ha detto la viceministra degli esteri Francess Piagie Alghali, “muoiono in silenzio”. La biodiversità si è persa, la fauna selvatica è migrata, i campi agricoli e le paludi sono stati abbandonati. Tutte conseguenze dirette del conflitto armato, ma nessuno le conta più. La Sierra Leone detiene in questo mese di novembre la presidenza a rotazione del Consiglio di sicurezza, e Alghali ha diretto un dibattito sull’impatto ambientale dei conflitti armati proprio mentre i capi di stato di quasi tutto il mondo si preparano per Belém, dove a breve si terrà la COP30.

Il tempismo non è casuale: due miliardi di persone – un quarto della popolazione globale – vivono oggi in aree colpite da conflitti. “I danni ambientali causati dai conflitti continuano a spingere le persone alla fame, alla malattia e agli sfollamenti”, ha ribadito Andersen. “Nel frattempo, il cambiamento climatico esacerba le tensioni e può persino contribuire al conflitto, ad esempio per le risorse idriche o terrestri.” È un serpente che si morde la coda: la guerra distrugge l’ambiente, l’ambiente distrutto alimenta nuove guerre.

Di fronte a questa devastazione, dall’UNEP non arriva solo la denuncia. Arriva anche una proposta. Charles C. Jalloh, professore di legge e membro della Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, l’ha messa nero su bianco: “Il vuoto giuridico non aiuta. È necessario colmare le lacune includendo gli attacchi massicci alla natura nel diritto penale internazionale, riconoscendo il crimine di ecocidio allo stesso modo dei crimini di guerra o dei crimini contro l'umanità”.

Non è la prima volta che dall’UNEP arriva un invito ad accelerare sull’adozione dell’ecocidio come crimine internazionale, ma mai erano stati usati toni così forti. Jalloh ha proposto anche la creazione di un meccanismo delle Nazioni Unite per monitorare e compensare i danni ambientali legati ai conflitti. “Proteggere il pianeta significa evitare che la guerra metta radici nella terra”, ha concluso.

Coincidenza vuole che, mentre a New York si alzava il tono sull’ecocidio, proprio in una terra di conflitto si passava ai fatti. Ieri, giovedì 6 novembre, l’Ucraina ha accusato la Russia di aver commesso un ecocidio per i gravi danni ambientali provocati dalla guerra. Il Ministero degli esteri di Kiev ha documentato finora oltre diecimila casi di distruzione ambientale legati all’invasione russa. Campi bruciati, foreste distrutte, aria e acqua inquinate, terre minate.

I danni ambientali causati dal conflitto ammonterebbero a circa 142 milioni di dollari dall'inizio dell'invasione russa su larga scala. L’Ucraina ha potuto farlo perché nel suo sistema legislativo esiste già una legge che punisce l'ecocidio. Grazie a essa, è nata una procura specializzata che ha raccolto campioni di suolo, acqua, polveri, vegetazione: il primo database esistente di ecocidio come conseguenza di una guerra. Il paradosso è che anche la Russia ha una legge sull’ecocidio. C’è il rischio, concreto, che la tutela degli ecosistemi diventi l’ennesimo strumento di conflittualità tra paesi. Ma forse, per ora, è un rischio che vale la pena correre.

 

In copertina: foto di Mahmoud Sulaiman, Unsplash