Il baricentro del dibattito climatico a Belém, sede della COP30 nel cuore dell’Amazzonia, si sta spostando su nuovi pilastri. In un contesto geopolitico in cui i paesi BRICS, soprattutto Cina e Brasile, parlano con voce sempre più influente, emerge una linea chiara: la transizione non può ignorare sviluppo, occupazione e sicurezza economica. Ma cosa significa, in questo scenario, costruire davvero una transizione giusta? E quali strumenti servono per farla diventare realtà?

Tra le proposte sul tavolo, il Belém Action Mechanism (BAM) rappresenta il tentativo più ambizioso. Nato come iniziativa della società civile, con una proposta avanzata da Climate Action Network e poi ripresa, seppur in termini ancora vaghi, dal G77 + Cina, il BAM punta a creare un quadro internazionale dedicato alla giusta transizione. L’obiettivo è colmare un vuoto evidente: oggi solo il 2,8% della finanza climatica globale sostiene progetti legati alla transizione giusta, nonostante la portata delle sfide: riconversioni industriali e sicurezza occupazionale, ma anche tutela dei popoli indigeni lungo la filiera dei minerali critici, garanzia di accesso a energia, acqua, cibo.

L’Unione Europea riconosce l’importanza del tema, ma rimane prudente. Teme che un nuovo organismo possa creare sovrapposizioni burocratiche, costi aggiuntivi, aspettative difficili da soddisfare. Bruxelles preferisce rafforzare l’esistente Just Transition Work Programme, evitando di trasformare il BAM in un soggetto finanziario autonomo. È una tensione evidente: come conciliare la necessità di infrastrutture globali di giustizia con il rischio di frammentare ulteriormente il sistema climatico multilaterale?

Proprio nel Just Transition Work Programme emergono però alcune delle novità più significative. Claudia Concaro, analista di Italian Climate Network (ICN), sottolinea che il testo negoziale è ancora costellato di opzioni ma mostra una convergenza crescente verso una visione più ampia: una transizione che riguarda non solo il lavoro, ma l’intera società. Concaro evidenzia che il tema dei minerali critici sta assumendo un peso centrale, con il G77 + Cina che chiede garanzie per mitigare gli impatti delle misure di protezione nazionali, mentre l’UE spinge per un utilizzo competitivo delle filiere. Una dinamica che rivela quanto la giusta transizione sia intrecciata con diritti delle comunità, sovranità territoriale, equilibri geopolitici.

Ma la domanda sottostante rimane la stessa: chi deve fare di più? E chi paga il costo sociale del cambiamento? I paesi del Sud Globale riportano al centro le responsabilità comuni ma differenziate, chiedendo che l’ambizione climatica tenga conto delle asimmetrie economiche. L’Europa, pur sostenendo il principio, non può esportare il proprio modello così com’è. Serve cooperazione, ma anche una revisione del modo in cui si distribuiscono responsabilità e benefici della transizione.

In questo contesto l’Italia appare in difficoltà. Da un lato deve modernizzare il sistema produttivo per restare competitiva; dall’altro fronteggia impatti climatici sempre più severi. Secondo ISPRA, gli eventi estremi degli ultimi vent’anni hanno causato oltre 100 miliardi di euro di danni, e la sola alluvione in Emilia-Romagna del 2023 ne ha provocati più di 9 miliardi. Le proiezioni europee indicano che, senza politiche strutturate di adattamento, il costo climatico potrebbe erodere fino al 3% del PIL entro il 2050.

Nonostante questo scenario, manca una strategia nazionale sulla giusta transizione. Il Just Transition Fund, limitato a Taranto e al Sulcis, scade nel 2027 e i bandi procedono lentamente. La revisione del PNIEC non colma il vuoto: parla di decarbonizzazione, ma non prevede meccanismi di governance, strumenti per gestire gli impatti su lavoro e territori, né una pianificazione industriale coerente. In questo quadro, avverte l’analista di ECCO Giulia Colafrancesco, il rischio è che senza una politica industriale chiara le riconversioni restino sulla carta, mentre interventi sporadici e reattivi non permettono di costruire un percorso duraturo.

Lo stesso vale per il dialogo sociale. I principali sindacati italiani (CGIL, CISL e UIL) stanno affrontando il tema della transizione giusta con approcci diversi ma non contrapposti. La CGIL insiste sulla necessità di accelerare la transizione con forte governance pubblica, investimenti, pianificazione industriale e tutela del lavoro. CISL e UIL condividono la stessa idea di fondo − che la transizione debba essere governata, contrattata e accompagnata − ma con priorità differenti. A rendere tutto più complesso è l’assenza di un confronto stabile con le istituzioni. A denunciarlo apertamente è Simona Fabiani, responsabile di politiche per il clima, territorio, ambiente e giusta transizione della CGIL nazionale: “Manca del tutto un confronto strutturato con il governo, e questo impedisce di trasformare le proposte in politiche credibili e durature”.

Anche in sede europea l’Italia ha adottato una strategia prudente nelle negoziazioni per l’obiettivo di riduzione al 2040: ha ottenuto flessibilità e possibilità di usare più crediti internazionali, pur al costo di perdere una quota di entrate potenziali dell’ETS2 pari a 15-21 miliardi di euro. Risorse che avrebbero potuto finanziare investimenti sociali e industriali legati alla transizione. Una scelta che solleva interrogativi: pragmatismo o mancanza di visione?

La lezione che arriva da Belém è chiara: la transizione giusta non è un dettaglio accessorio, ma la condizione per un futuro resiliente, competitivo ed equo. L’Italia non può permettersi di restare spettatrice. Senza una strategia, rischia di essere tagliata fuori da quel nuovo equilibrio globale che si sta negoziando proprio alla COP30.

 

In copertina: foto di Climate Action Network (CAN)