Sapevamo che la finanza climatica sarebbe stata un tema caldo anche a COP30 − l’obiettivo finanziario approvato a Baku lo scorso anno aveva lasciato molti delusi: almeno 300 miliardi, o solo 300 miliardi, di dollari all’anno entro il 2035 per la mitigazione e l’adattamento dei paesi in via di sviluppo. Provenienti da fonti pubbliche e private mobilitate dai paesi sviluppati e da fonti alternative, con la volontà di conteggiare anche i flussi destinati al clima delle Banche multilaterali di sviluppo. Troppo pochi e troppo tardi.

Non è bastata l’aggiunta di una chiamata (non legalmente vincolante) a tutti gli attori affinché la finanza climatica verso i paesi in via di sviluppo raggiunga il totale di 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035, in linea con le loro stimate necessità da fonti internazionali. Non è bastata la roadmap prodotta dalle Presidenze COP29 e COP30 su come raggiungerli. Non è servito neanche che un gruppo di esperti internazionali delineasse una traiettoria per arrivare ai 1.300 miliardi, di cui metà delle risorse è prevista provenire da fonti private. I paesi in via di sviluppo continuano a chiedere una cosa sola: finanza pubblica.

La ragione alla base di questa richiesta viene direttamente dall’Accordo di Parigi. L’articolo 9.1 definisce l’obbligo da parte dei paesi sviluppati di fornire risorse finanziare per assistere i paesi in via di sviluppo nella mitigazione e nell’adattamento. Ventiquattro paesi e l’Unione Europea sono considerati sviluppati nel contesto ONU sul clima, sulla base di considerazioni avvenute all’epoca della creazione della Convenzione, nel 1992. Molto da allora è cambiato, sia in termini di responsabilità relative al cambiamento climatico, definite sulla base delle emissioni cumulate di gas a effetto serra, che di capacità, spesso valutate in termini di prodotto nazionale lordo pro capite.

Nonostante ciò, non è mai stato raggiunto un accordo su una nuova suddivisione delle parti e in sala si prosegue con lo status quo. Per i paesi in via di sviluppo, tra cui figurano sia le nazioni più vulnerabili ai cambiamenti climatici che il più grande emettitore di gas climalteranti nonché seconda economia del mondo, la Cina, l’accordo finanziario definito a COP29 non implementa l’articolo 9.1, che di fatto deve essere ancora reso operativo.

Le ragioni alla base di questa considerazione non sono completamente chiare: l’obiettivo finanziario definito a Baku riprende la dicitura del precedente. Se per esso sono state conteggiate sia la finanza pubblica che privata mobilitata dai paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo, per continuità avrebbe dovuto farlo anche questo. È vero, tuttavia, che il testo non riporta un riferimento puntuale al 9.1, inserendo l’obiettivo finanziario al di sotto del più generale cappello dell’articolo 9. Una mancanza che lascia spazio a nuove trattative.  

A Baku, a COP29, le principali battaglie negoziali dei paesi sviluppati, con Stati Uniti e Unione Europea in prima linea, sono state due: aprire la lista dei contribuenti all’obiettivo finanziario e includere più finanza privata possibile. La prima non è stata vinta in pieno: il testo non definisce nuovi obblighi finanziari, seppur volendo conteggiare, per la prima volta, tutti i flussi climatici provenienti dalla Banche multilaterali di sviluppo, da paesi sviluppati e non. La seconda battaglia sembrava essere andata a segno: l’obiettivo finanziario di Baku copre solo una parte delle necessità di finanza dei paesi in via di sviluppo da fonti internazionali, lasciando il vuoto da colmare a finanza privata, cooperazione Sud-Sud o altri strumenti. Quella che era passata per una vittoria negoziale dei paesi sviluppati si è dimostrata, a COP30, una questione tutt’altro che chiusa.

Ma se dal lato del 9.1 l’attenzione è tanta, la Baku to Belém Roadmap sembra invece essere rimasta nell’ombra. Prodotta dalle presidenze di COP29 e COP30, in consultazione con Parti e non, la Roadmap è un documento di 88 pagine che definisce possibili soluzioni per il raggiungimento delle cifre definite dalla chiamata più ampia di Baku, i 1.300 miliardi di dollari all’anno. Focalizzata su cinque azioni (finanza concessionale e sovvenzioni; spazio fiscale e sostenibilità del debito; finanza privata trasformativa e costo del capitale conveniente; capacità e coordinamento nazionale; sistemi e strutture per flussi capitali equi), fornisce chiare indicazioni per diversi attori del sistema finanziario.

La Roadmap era stata aggiunta all’ultimo minuto per rendere più concreta la chiamata ai 1.300 miliardi di dollari all’anno e per aumentare il livello di fiducia nel raggiungimento della cifra. Ma a molti non basta: questa prima settimana a COP30 ci ha mostrato che un buon numero di paesi in via di sviluppo sembra aver messo da parte il macro-obiettivo di COP29, puntando piuttosto al raggiungimento di un maggiore impegno sulla finanza pubblica da parte dei paesi sviluppati. Non è detto che questi ultimi, data anche l’assenza della delegazione statunitense, riescano ora a sostenere la pressione in un contesto in cui i numeri volgono decisamente a favore del Sud Globale.

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In copertina: Andre Correa do Lago, presidente di COP 30, e Mukhtar Babayev, presidente di COP29 alla cerimonia di apertura di COP30. Foto di Ueslei Marcelino/COP30