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Da Baku – Obiettivo 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per aiutare i paesi i via di sviluppo a mitigare e adattarsi al cambiamento climatico. Ma solo 300 miliardi saranno erogati nella forma di cui hanno più bisogno: sovvenzioni e prestiti a basso tasso di interesse da parte dei paesi sviluppati.
Sono le 2.39 del mattino, ora di Baku, quando dalla bocca del presidente della COP29 Mukhtar Babayev esce la parola “adopted”. Il testo più atteso e discusso sulla finanza climatica, sui cosiddetti New Collective Quantified Goal (NCQG), è stato adottato. È avvenuto tutto in pochi secondi: l'India e altri paesi volevano prendere parola ma Babayev li ha semplicemente ignorati, battendo il martello per approvare il testo. Game over. Un accordo che scontenta soprattutto i paesi meno sviluppati e la società civile, ma che tiene in vita (per quanto ancora?) l’Accordo di Parigi.
Riassume bene COP29 Tasneem Essop, a capo del Climate Action Network: “Questo è stato il più orrendo negoziato sul clima degli ultimi anni, a causa della malafede dei paesi sviluppati. Come società civile abbiamo chiesto ai paesi in via di sviluppo di rifiutare un cattivo accordo, un accordo che avrebbe tradito le popolazioni del Sud globale". A cui però va aggiunta la ritrosia dei petrostati, la reticenza delle nuove economie come India e Brasile a fare la propria parte, il ruolo insufficiente della Cina, che con la prossima fuoriscita degli USA dovrà portare avanti il lavoro come leader insieme all’Europa.
Eppure, in un mondo estremamente polarizzato il multilateralismo climatico sembra tenere. L’impegno di mobilitazione complessiva di 1.300 miliardi l’anno rappresenta un passo avanti politico da parte dei paesi sviluppati, nonostante gli annunci del prossimo presidente statunitense, Donald Trump, nonostante il ruolo ostativo di petrostati come l’Arabia Saudita e l’Azerbaijan stesso, che non ha brillato per la gestione negoziale.
Guardando il risultato complessivo di queste due settimane si capisce come si sia entrati in un’epoca difficile per l’Accordo di Parigi e la lotta per il clima. La cartina di tornasole l’avremo il prossimo anno a Belem, a COP30, quando saranno presentati tutti i nuovi NDC, gli impegni per la decarbonizzazione delle nazioni.
Ma basta il risultato su finanza e mitigazione a COP29 per suonare il segnale d’allarme. Nel testo sulla riduzione delle emissioni (Mitigation Work Program) sparisce addirittura il riferimento a limitare l’aumento delle temperature entro gli 1,5°C al di sopra dei livelli preindustriali, e si rimandano al prossimo anno le decisioni sull’implementazione del Global Stocktake, ovvero quegli obiettivi prescrittivi definiti lo scorso anno a Dubai di triplicare le rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica.
“L’influenza degli interessi legati all’economia dei combustibili fossili, attraverso i paesi produttori come Arabia Saudita e Russia e le imprese fossili, che insieme predicano la neutralità tecnologica per mantenere lo status quo, hanno prevalso sia alla COP29 che al G20 di Rio, bloccando le azioni necessarie per la transizione verde”, spiega Eleonora Cogo, esperta di finanza internazionale di ECCO, think tank italiano per il clima. “La spinta verso false soluzioni, che vediamo fortemente anche in Italia su gas, biocombustibili e nucleare, blocca l’innovazione, mettendo a rischio la competitività industriale, e limita l’accesso sociale alla transizione, a favore di pochi ma forti interessi economici.”
Solo soluzioni di mercato come l’articolo 6 sui carbon market hanno trovato consenso (approvato nella prima serata di sabato), mentre rimane molto da fare per una amplia riforma della finanza globale. In generale manca coraggio per proporre nuove soluzioni e meccanismi, non si accetta di superare la divisione manichea tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati, nonostante Cina, Brasile, India, Arabia Saudita, Russia vogliano assurgere a nuove potenze globali. COP29 non è stato un negoziato né storico né di prospettiva, ma un preoccupante segnale di allarme. Vediamo in dettaglio i testi usciti.
1.300 miliardi e dove trovarli
Le stime reali dei costi del cambiamento climatico vengono messe subito nero su bianco, nel documento che ha tenuto tutti con i nervi tesi. Nel testo del New Collective Quantified Goal si stima il costo di mitigazione e adattamento per i paesi in via di sviluppo: una cifra monstre di 5,1-6,8 mila miliardi di dollari fino al 2030, ovvero 455-584 miliardi di dollari all'anno, mentre il fabbisogno finanziario per l'adattamento è stimato in 215-387 miliardi di dollari all'anno fino al 2030. Soldi per paesi che molto spesso sono tra quelli più colpiti dal cambiamento climatico ma che meno di tutti contribuiscono alle emissioni cumulative di gas serra. Per questo il nuovo goal servirà per sostenere soprattutto quei paesi che non hanno sufficienti risorse, per "contributi di riduzione emissioni determinati a livello nazionale, piani di adattamento nazionali e comunicazioni sull'adattamento", in particolare rivolti ai paesi meno sviluppati e agli stati insulari meno ricchi.
Dunque, si stima di raggiungere la movimentazione di 1.300 miliardi di dollari entro il 2035, con il contributo di tutti i paesi, finanza pubblica o privata che sia. Il mondo industrializzato dovrebbe fare la parte del leone – mettendo già oggi 100 miliardi all’anno – ma Europa, USA, Giappone e altri non si trovano certo in una congiuntura politica per spiegare ai propri contribuenti perché dovranno almeno triplicare quanto già allocato oggi in cooperazione climatica.
L’obiettivo risicato raggiunto è quello di 300 miliardi di dollari al 2035, “da un'ampia varietà di fonti, pubbliche e private, bilaterali e multilaterali, comprese le fonti alternative (tasse, climate-debt swap, filantropia, su cui si capirà come contabilizzare)”. Si riconosce di “conteggiare tutti i flussi in uscita e i finanziamenti legati al clima e nello specifico quelli per il raggiungimento dell’NCQG, i 1.300 miliardi”.
Il resto del testo offre generiche raccomandazioni: rafforzare la cooperazione bilaterale; sostenere le banche multilaterali; incrementare significativamente gli sforzi sull’adattamento; ridurre il costo del capitale tramite l'uso di strumenti innovativi (strumenti first-loss, garanzie, finanziamenti in valuta locale, foreign exchange risk instruments). Si stabilisce anche di triplicare le risorse pubbliche (tra 2022 e 2030) per l’adattamento attraverso vari fondi esistenti, come Adaptation Fund, Fondo per i paesi meno sviluppati e Fondo speciale per il cambiamento climatico, sia per paesi sviluppati che in via di sviluppo.
Avinash Persaud, esperto di finanza climatica presso la Banca interamericana di sviluppo, è realista e commenta a Materia Rinnovabile: "È stato combattuto duramente, ma con 300 miliardi di dollari all'anno, erogati dai paesi sviluppati ai paesi in via di sviluppo, siamo arrivati al limite tra ciò che è politicamente realizzabile oggi nei paesi sviluppati e ciò che farebbe la differenza nei paesi in via di sviluppo". Poco pochissimo, dato che questa decisione caratterizzerà i prossimi dieci anni di azione.
Si prova a salvare il processo con una strategia classica COP quando i governi sono poco ambiziosi: lanciare una roadmap, battezzata Baku to Belém Roadmap to 1.3T, dove la T ricorda i trillions, le migliaia di miliardi. Le due presidenze congiunte di Brasile e Azerbaijan dovranno concludere entro COP30 un lavoro per studiare opzioni per movimentare nuove risorse attraverso grants, strumenti agevolati e non che creano debito, e nuove misure fiscali. Come per il DSI nell’accordo sulla biodiversità sarebbe d’uopo una tassa dell’1% sul fatturato delle compagnie Oil and Gas. Oppure nuove carbon tax, o usare la proposta G20 di tassare i super ricchi.
In ogni caso rimane poi il tema di come vengono spesi i soldi. Se il ministro Gilberto Pichetto Fratin commenta a fine negoziato che “abbiamo portato lo spirito del Piano Mattei nel dibattito della COP29”, vale la pena ricorda come il Fondo italiano per il clima non sia il miglior esempio di buon uso della finanza climatica, come risulta dall’analisi fatta su queste pagine. Trasparenza e rendicontazione ci diranno negli anni se queste risorse sono state davvero utili. Sperando non sia troppo tardi.
Il programma di lavoro sulla mitigazione
Tagliare le emissioni di gas serra è l’obiettivo centrale dell’Accordo di Parigi, ma lo scarso lavoro sul tema può definirsi la cifra della presidenza di Babayev. Sebbene sia stato ribadito dall’UNEP che gli attuali NDC comportano un riscaldamento globale catastrofico fino a 2,6°C nel corso del secolo, il negoziato sulla mitigazione è stato ostacolato soprattutto da Cina (seguita da tutto il gruppo negoziale Like Minded Developing Countries), Arabia Saudita (e tutto il gruppo negoziale dei paesi arabi) e paesi africani, nel tentativo anche di fare pressione sui fondi per l’NCQG. Secondo Jacopo Bencini, presidente di Italian Climate Network, “questi paesi hanno più volte ribadito di non voler accettare obiettivi imposti dall’alto o da altri stati”. Niente riferimenti al “transition away from fossil fuel” come deciso a COP28, al raggiungimento del picco delle emissioni prima del 2025, alle rinnovabili, alla transizione, all’accumulo.
Il grosso del testo si concentra sull’edilizia ed emissioni operative (da riscaldamento, raffreddamento ed elettrodomestici),“la progettazione di cappotti edilizi per l'efficienza energetica (per ristrutturazioni e nuove costruzioni), la riduzione delle emissioni incorporate (nei materiali da costruzione), la pianificazione territoriale e infrastrutture a basse emissioni di carbonio, l’elettrificazione e il passaggio a fonti da tecnologie pulite e a basse emissioni, il miglioramento dello stoccaggio del carbonio attraverso infrastrutture verdi e blu”.
Un buon segnale per la pubblica amministrazione visto che si mette al centro “l'importanza di integrare l'azione per il clima nel lavoro sugli edifici e sulla pianificazione dei sistemi urbani, per ridurre le emissioni attraverso una pianificazione a lungo termine nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi per uno sviluppo sostenibile e degli sforzi per eliminare la povertà e le disuguaglianze”. Ma al netto di questo, la delusione è forte. Se non ci saranno nuovi NDC ambiziosi e un rafforzamento dell’implementazione del Global Stocktake, possiamo iniziare a dubitare che saremo mai in grado di raggiungere persino l’obiettivo dei 2°C.
Articolo 6, via ai nuovi mercati globali del carbonio
Dopo 9 anni di lunga attesa è stato finalizzato l’ultimo articolo dell’Accordo di Parigi che non era ancora stato reso operativo, quello sui mercati del carbonio, in particolare l’articolo sugli approcci cooperativi (Articolo 6.2) e il meccanismo centralizzato di mitigazione e sviluppo sostenibile (Articolo 6.4). Sebbene i mercati del carbonio contribuiranno solo minimamente agli obiettivi finanziari per contrastare il cambiamento climatico, l’approvazione è stata salutata con favore dagli addetti ai lavori, nonostante le critiche della società civile del Global South.
L’articolo 6.4 istituisce il Meccanismo di credito sotto l’Accordo di Parigi (PACM), il primo mercato globale supervisionato dall’ONU, con standard uniformi per progetti di afforestazione e riforestazione e strumenti per lo sviluppo sostenibile, incluso lo Strumento di sviluppo sostenibile (una valutazione ex ante di ogni nuovo progetto sulla base degli Obiettivi di sviluppo sostenibile), per venire incontro alle richieste di popolazioni indigene e ONG. Spiega Italian Climate Network: “Nello specifico, la metodologia adottata prevede di strutturare le basi di partenza (storiche) su cui calcolare il contributo di mitigazione secondo una traiettoria decrescente nel tempo (downwarding adjustment), anche se la società civile fa notare che le metodologie di calcolo potrebbero non essere così stringenti o precise”. Dentro questo mercato confluiranno i Clean Develpment Mechanism (CDM), un vecchio e fallimentare strumento di carbon market del Protocollo di Kyoto, a condizione che rispettino i nuovi requisiti.
“Questa decisione è importante perché finalmente si ricrea dopo il protocollo di Kyoto un mercato globale del carbonio, dà un segnale di prezzo globale e svilupperà maggiori collaborazioni tra stati, anche se non eliminerà la frammentazione dei circa 50 mercati nazionali e regionali che già esistono”, commenta Edoardo Croci dell’Università Bocconi. “Questi crediti potranno anche essere usati sul mercato volontario e quindi è un segnale di convergenza, di sviluppo di migliori regole di trasparenza e maggiore forza di mercato.”
L’articolo 6.2 istituisce legalmente gli ITMO, ovvero progetti di riduzione o rimozione delle emissioni di gas a effetto serra trasferiti tra paesi come meccanismo di cooperazione. Se un governo africano realizza un impianto eolico che genera una riduzione annuale di 100.000 tonnellate di CO₂ equivalente, può vendere i crediti di carbonio a un’altra nazione, che conteggerà così la riduzione di emissioni nel suo budget della CO₂. Tutti gli ITMO saranno elencati in un unico registro. “Non è escluso che si possa creare un mercato con un prezzo di mercato unico anche degli ITMO, proprio alla luce della definizione di regole standard”, aggiunge Croci.
Adattamento, avanti a passi lenti
Un set di quasi 100 indicatori per la reportistica, con opzioni flessibili per ogni paese in base alle oggettive circostanze locali. Questo il quid del negoziato più tecnico di COP29. Questi indicatori serviranno per misurare e confrontare i progressi raggiunti verso gli obiettivi di adattamento stabiliti nel Global Goal on Adaptation (GGA) secondo un approccio sia incrementale che trasformativo. Sono stati inclusi indicatori su ecosistemi e nature-based solutions, indicatori sociali legati all’inclusione di genere, delle persone indigene, giovani e con disabilità, favorendo i processi partecipati. Per l’implementazione si valuteranno il trasferimento di tecnologie, capacity-building e l’importanza dei tempi, della fattibilità e dell’accesso alla finanza per l’adattamento. I lavori proseguiranno da qua in avanti sotto gli auspici della Baku Adaptation Road Map per continuare i lavori sul GGA, basandosi sulla scienza e sul lavoro dell’IPCC.
Il futuro di COP?
Durante la COP29, la presidenza ha presentato l’iniziativa Trio di Rio, un progetto volto a promuovere un’azione coordinata tra le tre principali Convenzioni delle Nazioni Unite adottate a Rio de Janeiro: cambiamenti climatici, biodiversità e lotta alla desertificazione. Questo impegno mira a rispondere in maniera integrata alle tre sfide globali, strettamente interconnesse. Tuttavia, manca ancora un percorso negoziale dedicato che unisca clima, biodiversità e desertificazione, simile a quelli già avviati in passato sull’agricoltura. Sarà sicuramente un grande tema dei negoziati di Belem e di Bangkok nel 2025, con la speranza che arrivi un messaggio anche da Riyadh dove il prossimo 2 dicembre inizia la COP16 Desertificazione.
In tanti puntano l’attenzione sul Trattato sui combustibili fossili, un’iniziativa di lungo termine per rendere legalmente vincolante il phase-out delle fossili, che avrebbe grande influenza sull’Accordo di Parigi. Susana Muhamad, ministra dell'ambiente e dello sviluppo sostenibile della Colombia ha affermato che “lo sforzo per sviluppare un Trattato sui combustibili fossili passerà a una fase successiva nel 2025. Come abbiamo concordato durante la riunione dei ministri che fanno parte di questa iniziativa, porteremo avanti il trattato all'Assemblea generale delle Nazioni Unite e all'Assemblea ambientale delle nazioni. Abbiamo discusso di come il trattato affronterà le potenziali implicazioni dell'eliminazione graduale dei combustibili fossili e i requisiti economici per procedere. Ci auguriamo che nella prossima fase otterremo l'impegno di altri paesi desiderosi di partecipare a questo processo, in modo da poter avviare i negoziati. Incoraggiamo tutte le persone e i governi che vogliono una transizione equa, veloce e finanziata a unirsi a noi".
La pressione per una riforma del processo negoziale globale è sempre più forte, lo hanno ribadito tantissime personalità intervistate durante COP29 e COP16 a Cali. E deve procedere di pari passo con una nuova architettura globale post 2030, fondata su pace, giustizia sociale e ambiente. Se la comunità internazionale è riuscita a trovare 2.400 miliardi per gli armamenti dovrebbe riuscire a fare lo stesso per la finanza per natura e clima. Anzi, raggiunti i cessate il fuoco in Sudan, Ucraina, Gaza, Yemen, la comunità internazionale dovrebbe lavorare per una de-escalation totale, di guerra tra uomini e con la natura.
Questi sono messaggi che avrebbero dovuto sostenere tutti i ministri a Baku, invece che limitarsi a difendere il mero perimetro nazionale, effimera definizione che la catastrofe climatica e ambientale non conosce, giudicando tutti con un’unica responsabilità globale per i crimini commessi. Ma anche a COP le divisioni e la partigianeria, gli attacchi violenti e le decisioni unilaterali sembrano sempre di più la cifra di quello che un tempo era un prezioso baluardo di multilateralismo e oggi vacilla sempre più.
Ha contribuito a questo articolo Simone Fant
In copertina: Simon Stiell, segretario esecutivo dell'UNFCCC, e Mukhtar Babayev, presidente di COP29 © COP29