Cosa avrebbe detto Donald Trump se fosse stato a Belém? Il summit dei leader, antipasto della COP30, si è aperto giovedì 6 novembre nella città che dischiude al viaggiatore le sterminate foreste dell’Amazzonia. Chiederselo non è banale. Il tycoon newyorchese avrebbe avuto un impatto devastante sulla sfilata di capi di stato e di governo che apre le conferenze annuali, liberando i peggiori istinti degli omologhi.

Immaginate un negazionista dichiarato che si presenta sul palco della principale kermesse globale del clima per rifiutare apertis verbis la scienza e rilanciare l’estrazione di combustibili fossili: una tentazione presente in molti, ma che buon gusto (e buon senso) consigliano di tenere a freno. Meglio allora, per dirla con il presidente colombiano Gustavo Petro, che Trump sia rimasto a casa. Ma il suo spettro incombe: ed è la prima constatazione che si può fare analizzando quanto accaduto nella due giorni appena andata in scena. Vediamo il resto.

Guterres contro le lobby

Il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres nel suo discorso di apertura si è scagliato contro le multinazionali del fossile. “Il mondo ha fallito”, ha detto. “Troppe corporation stanno facendo profitti record con la devastazione climatica”, ha accusato poi, “con miliardi di dollari spesi in attività di lobbying, ingannando il pubblico e ostacolando il processo [di transizione]”. “Basta greenwashing”, ha aggiunto, parlando di convenienza delle rinnovabili e tecnologia. Temi che, come vedremo, ritorneranno. Guterres ha poi ricordato l’obiettivo di 1.300 miliardi l’anno di finanza climatica concordato l’anno scorso a Baku. “Non è più tempo di negoziati, è tempo di implementazione, implementazione, implementazione”: e così Lula, che aveva spesso definito questa COP “la COP della verità”.

Dal canto proprio, il presidente brasiliano e padrone di casa ha rilanciato in apertura di cerimonie il multilateralismo e sottolineato la distanza tra diplomazia e mondo reale, citando le cifre dei danni economici e in termini di vite umane del riscaldamento globale. Giovedì 6 novembre se l’è presa con chi diffonde “falsità per ottenere vantaggi elettorali” – e il Brasile di Bolsonaro ne sa qualcosa. La politica ambientale del presidente è migliore di quella del predecessore, ma non priva di contraddizioni, come sul recente via libera alle trivellazioni alla foce del Rio delle Amazzoni. Ma c’è un asso nella manica.

Lula ha presentato nei giorni scorsi, e lanciato alla COP30, la sua punta di diamante: il Tropical forest forever fund (Tfff). Si tratta di un vero e proprio fondo di investimento che in dieci anni dovrebbe raccogliere 125 miliardi di dollari, per investirli e generare una rendita da distribuire ai paesi virtuosi nella protezione delle foreste. Uno strumento innovativo, che potrebbe cominciare quest’anno con dieci miliardi. La Norvegia ha promesso tre miliardi di dollari, Brasile e Indonesia uno a testa, la Francia 500 milioni. Siamo a metà del guado: ora si batte cassa con gli altri stati.

Venerdì, 7 novembre, ha poi parlato di energia e tecnologia. “Sappiamo già che non è necessario spegnere macchinari e motori, o chiudere fabbriche in tutto il mondo da un giorno all'altro”, ha detto Lula. “La scienza e la tecnologia ci consentono di evolvere in sicurezza verso un modello incentrato sull'energia pulita.”

Multilateralismo, fake news e jet privati

A chi si è chiesto se abbia senso fare le COP, dal momento che l’emergenza sembra peggiorare di anno in anno, ha risposto il presidente della Guyana Irfaan Ali. “Qual è l’alternativa?”, ha domandato. “Non c’è ancora un altro forum in cui ogni nazione può sedere alla pari delle altre per plasmare la risposta del pianeta. Quindi, dobbiamo farle funzionare.”

Ali ha sottolineato, però, che il processo “non si sta muovendo alla velocità o con il successo che la nostra gente merita”.  La presidente della World metereological organization Celeste Saulo corregge il tiro: ci sono stati, ha rimarcato, progressi “reali e misurabili”. E ha ragione: prima dell’Accordo di Parigi il mondo era sulla traiettoria dei quattro gradi di riscaldamento; oggi siamo a 2,8.

Tra le altre dichiarazioni notevoli, quella del capo del governo spagnolo Pedro Sanchez. “Stiamo lavorando assieme ad altri paesi per tassare i voli in classe premium e i jet privati”, ha affermato. “È solo giusto che chi ha di più, e inquina di più, paghi un prezzo appropriato.” Il presidente francese Macron, invece, se l’è presa con la disinformazione climatica. Ogni riferimento a Trump è puramente voluto. E non solo a lui: alcune ricerche hanno rivelato che le aziende del mondo delle fonti fossili avrebbero pagato a Meta, che possiede le piattaforme di social media Facebook, Instagram e WhatsApp, fino a 5 milioni di dollari per annunci di disinformazione sul clima in vista della COP28 negli Emirati Arabi Uniti.

L’economia va forte

Ascoltando gli interventi dei leader che si sono alternati sul palco – un modo per prendere la temperatura al dibattito sul riscaldamento globale − c’è qualche altra considerazione che il cronista può fare. La prima è che il tema economico è salito di prepotenza ai primi posti dell’agenda. Oggi non è più possibile discutere di cambiamento come se la transizione non avesse un costo: la “maggioranza globale” − espressione portata alla ribalta dalla Cina qualche mese fa e che meglio di “global south” rende la misura dei valori in campo − è diventata sempre più compatta al riguardo. La transizione serve, ma servono anche i quattrini: senza, rien à faire.

Il secondo grande tema è la leadership, immanente, della Cina. Qualche settimana fa, al Climate Summit di New York, il segretario del partito comunista Xi Jinping aveva annunciato in collegamento video i propri obiettivi climatici, sensibilmente migliori rispetto al passato. Pechino è il campione mondiale delle rinnovabili, nonostante sia anche il principale emettitore globale, e intende proseguire il viaggio, anche perché possiede le terre rare – e la tecnologia – per farlo. Dal palco di Belém il vicepremier cinese Ding Xuexiang non ha fatto, come sempre, annunci roboanti: i burocrati asiatici mancano di teatralità. Ma il discorso di Xi di qualche settimana fa ha dimostrato a tutti una cosa: coniugare sviluppo economico e transizione energetica è possibile. Anzi, conviene. Non sono necessariamente antitetici, come ripetono a Washington, e riecheggia a Bruxelles. E questa tesi, corroborata dai fatti, plasmerà il dibattito del prossimo decennio.

C’è un altro argomento, di cui si è sentito parlare parecchio in Brasile: l’intelligenza artificiale. La tecnologia consuma quantità enormi di risorse, ma può anche contribuire – e non poco – all’ottimizzazione. Se il bilancio sarà positivo, è probabilmente presto per dirlo. Un paper della London School of Economics pubblicato nei mesi scorsi sulla rivista Nature è ottimista al riguardo. “L'intelligenza artificiale è ben posizionata per accelerare questa transizione”, scrivono gli autori – tra cui gli italiani Roberta Pierfederici e Mattia Romani −, “e, in quanto set di tecnologie generiche, può essere applicata per accelerare questo processo di trasformazione profonda dei sistemi, aumentando la velocità, l'efficienza e l'efficacia con cui i processi di innovazione vengono ‘scalati’ e il capitale impiegato”.

I ricercatori sottolineano che sono ancora pochi gli studi al riguardo. Ma, aggiungono, “la decarbonizzazione dell'economia globale richiede cambiamenti sistemici e strutturali radicali in tutti i principali sistemi complessi, tra cui le città, il territorio, i trasporti, l'industria e l'energia. La riprogettazione e la trasformazione di tali sistemi e la loro esecuzione in modo efficace ed efficiente (ad esempio, sulla base di dati in tempo reale) possono essere notevolmente facilitati dall'intelligenza artificiale”. E i leader che hanno sfilato sul palco della COP30 paiono saperlo. Ne hanno parlato in parecchi. L’AI può aiutare a gestire meglio l’intermittenza delle rinnovabili (ottimizzando le reti), a migliorare la logistica (risparmiando carburante), ma anche a prendere decisioni di investimento migliori in contesti dove le informazioni sono scarse e a prevedere i disastri del clima.

Quello che è importante sottolineare è che, al momento, si tratta di tecnologie costose e che richiedono formazione adeguata: insomma, c’è – ancora una volta − una frattura tra mondo occidentale e maggioranza globale. Qualcosa sul tema si è sentito nel discorso del cancelliere tedesco Friedrich Merz. “Ci stiamo focalizzando su innovazione e apertura tecnologica per fermare il cambiamento climatico”, ha detto. “La nostra economia non è il problema, ma piuttosto la chiave per proteggere meglio il clima. Facciamo affidamento sull’innovazione e l’apertura tecnologica quando si tratta di combinare competitività con protezione del clima ed equità sociale.”

Prestigio internazionale

Lunedì 10 novembre comincia la conferenza vera e propria, tra problemi logistici e una struttura congressuale non ancora completata. Sarà la prova del fuoco per un Lula consapevole che su Belém si è giocato molto del suo prestigio internazionale. E che si trova alle prese con la necessità di fare del Brasile una media potenza, costi quel che costi, e quella, al contempo, di tutelare uno degli ecosistemi più ricchi al mondo. Sarà vera gloria?

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In copertina: foto di Alex Ferro/COP30