Questo articolo è disponibile anche in inglese / This article is also available in English

A novembre, la COP30, il vertice delle Nazioni Unite sul clima, si svolgerà a Belém, città brasiliana di 1,3 milioni di abitanti sull’estuario del Rio delle Amazzoni. È un’occasione storica per la diplomazia climatica internazionale, dopo il fallimento della COP “fossile” di Baku, e anche per il Brasile, che vuole mostrare i suoi progressi ambientali sotto il presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Ma il Paese non potrà nascondere le sue contraddizioni.

Lula, leader nella lotta per il clima?

L’occasione diplomatica per il gigante sudamericano è ghiotta. Il Brasile è un importante mediatore tra Paesi ricchi e in via di sviluppo nei negoziati sul clima, ci spiega Claudio Angelo, già giornalista dell’autorevole Folha de S.Paulo e ora coordinatore della comunicazione dell’Observatório do Clima, una rete di 77 ONG. Salvare il processo di lotta al cambiamento climatico, nonostante il contesto geopolitico e la posizione degli Stati Uniti, e recuperare risorse per i Paesi più poveri sarebbe un successo.

Lula, tornato al potere nel 2023 con l’ambizione di fare del Brasile un “leader nella lotta contro la crisi climatica”, ha segnato una netta inversione di rotta rispetto al negazionismo del suo predecessore, Jair Bolsonaro. “È stato come andare dall’inferno al paradiso – commenta Caetano Scannavino, attivista per il clima e coordinatore dell’ONG Projeto Saúde & Alegria, attiva da quasi 40 anni in Amazzonia – Il governo Lula, insieme a Marina Silva (storica ambientalista, tornata ministro dell’Ambiente, ndr), ha ripristinato i programmi ambientali, di conservazione e protezione dell’Amazzonia cancellati durante l’era Bolsonaro”.

La deforestazione in Amazzonia è diminuita del 46% in due anni. Ma gli incendi boschivi alimentati dal cambiamento climatico aumentano; la deforestazione nel Cerrado, la savana brasiliana, procede a un ritmo doppio rispetto all’Amazzonia; e se progetti infrastrutturali come l’autostrada BR-319, che attraversa 408 chilometri dell’Amazzonia negli Stati di Rondonia e Amazonas, venissero completati, come intende fare il ministero dei Trasporti, “si può dire addio al controllo della deforestazione”, dice Claudio Angelo.

Doppio volto

Il governo e la presidenza si presentano come alfieri dell'ambiente. Tuttavia, il ministero dell'Agricoltura sovvenziona la trasformazione dei pascoli in coltivazioni di soia e non ostacola le occupazioni illegali di terreni pubblici. Quello delle Miniere e dell'Energia sta aprendo nuovi giacimenti di petrolio e gas nella foresta amazzonica e in aree offshore, incluso il piano di trivellazione alla foce del Rio delle Amazzoni, vicino a Belém.

A pochi mesi dalla COP, il Brasile si presenta con un doppio volto. Da un lato è campione delle rinnovabili: il 90% dell’elettricità proviene da fonti pulite, soprattutto idroelettrico, ma c’è anche un programma di biocarburanti. Dall’altro continua a puntare sul petrolio. Petrobras, la compagnia oil&gas statale, è (ventunesima) fra le 36 aziende che producono la metà delle emissioni globali da fonti fossili, e il suo piano 2025-2029 dedica oltre il 70% degli investimenti all’esplorazione di nuovi giacimenti, mentre solo il 15% andrà alla transizione energetica. Non c’è un piano concreto per abbandonare il petrolio, fondamentale fonte di entrate del governo. La tesi – sostenuta da esponenti di governo – è nota: servono i soldi per finanziare la transizione. Ma i soldi si fanno ostacolando la transizione energetica e mettendo in pericolo il Paese e il pianeta.

Deforestazione e agrobusiness

Scannavino ricorda che è difficile attuare programmi ambientali coraggiosi con un Congresso fortemente influenzato dalla lobby dell’agrobusiness. Bolsonaro ha perso le elezioni, ma il “bolsonarismo” resta forte e rappresenta circa un terzo degli elettori, più o meno la stessa fetta di popolo che si è schierata con Lula. Il terzo rimanente è in bilico.

Il Contributo Nazionale Determinato (NDC) del Brasile – che prevede una riduzione del 67% delle emissioni entro il 2035, rispetto ai livelli del 2005 – non è coraggioso. L’osservatorio di Climate Action Tracker lo definisce “quasi sufficiente” per gli obiettivi di Parigi, ma avverte: i target 2025 e 2030 sono irraggiungibili, e la neutralità climatica nel 2050 è una promessa vaga, senza dettagli concreti senza un cambio netto su deforestazione (anzi, riforestazione) e uso del suolo.

Anche lo sviluppo dell’industria dei biocarburanti preoccupa. In Brasile costituiscono il 25% dei carburanti per il trasporto, una quota in crescita. Ma il boom delle bioenergie aumenta la richiesta di terreni per colture come la canna da zucchero, la soia e l’olio di palma, incrementa l’uso di pesticidi, crea deforestazione e sottrae spazio agli indigeni. Il successo di RenovaBio, il programma nazionale per i biocarburanti, lanciato nel 2017 e attivo dal 2020, da questo punto di vista è allarmante: lo Stato del Pará ha un’alta percentuale di aree forestali degradate, occupate dall’agroindustria dell’olio di palma.

L’Amazzonia potrebbe essere lasciata comunque in pace dall’agrobusiness, spiega Claudio Angelo: “Il Brasile ha circa 2 milioni di ettari in aree già deforestate da utilizzare. Non c’è bisogno di abbattere nemmeno un albero per espandere l’agrobusiness; servono investimenti e l’applicazione della legge”.

Il Vertice dei Popoli

A vigilare sulla COP30- ci penseranno i 20-30mila partecipanti attesi alla Cúpula dos Povos, il vertice dei popoli organizzato sempre a Belém da oltre 400 movimenti sociali. Qui si discuterà di giustizia climatica, sovranità alimentare, diritti indigeni e transizione giusta. Gli attivisti sono uniti, e cercheranno di farsi sentire: tra le richieste c'è l'esclusione dei lobbisti dei combustibili fossili dai negoziati ufficiali della COP30 e la fine delle "false soluzioni”, come i mercati del carbonio e la geoingegneria.

SCARICA E LEGGI IL NUMERO 56 DI MATERIA RINNOVABILE: GLOBAL SOUTH

In copertina: immagine Envato