Si è chiuso a Pechino il Quarto Plenum del Comitato centrale del Partito comunista cinese. Per quattro giorni, dal 20 al 23 ottobre, i vertici del PCC si sono riuniti per quello che, tradizionalmente, dovrebbe essere il momento per discutere delle questioni interne del partito, ma che quest’anno ha avuto un carattere di eccezionalità: al centro della scena c’era infatti l’economia, e in particolare il nuovo piano quinquennale, il quindicesimo (2026-2030).

L’anticipazione dei temi del piano, che verrà lanciato ufficialmente a inizio 2026, secondo molti osservatori è dovuta alla necessità di dare un segnale di fiducia in una congiuntura geopolitica ed economica piuttosto incerta, tra guerra dei dazi e crisi dei consumi interni.

Non è dunque un caso che, nello stesso giorno di inizio del Plenum, l'Ufficio nazionale di statistica cinese abbia pubblicato gli ultimi dati sul PIL, che mostrano una crescita del 5,2% su base annua nei primi tre trimestri del 2025, con un’accelerazione di 0,2 e 0,4 punti percentuali rispetto ai tassi di crescita dell'intero anno e dello stesso periodo del 2024.

Insomma, un’iniezione di fiducia che ha dato il la alla discussione su quello che, pare, sarà davvero un nuovo capitolo nello sviluppo dell’economia cinese: non più basato semplicemente sulla velocità, ma incentrato sulla qualità, sulla sicurezza interna, sulla stabilità. Un piano di resilienza strategica.

Le linee guida del quindicesimo piano quinquennale

Portando in trionfo la crescita del 5,2% del PIL (a fronte della fatica con cui si era raggiunto il sospirato 5% a fine 2024), la leadership cinese può dunque con soddisfazione annunciare di uscire da un quinquennio di “straordinario sviluppo del paese”, come recita il comunicato ufficiale. E questo nonostante il “crescente protezionismo, la ristrutturazione delle supply chain, i conflitti internazionali, e i venti contrari esterni più forti del previsto”, come osserva il Global Times. Un risultato – aggiunge il quotidiano inglese del PCC – che “rafforza la fiducia nel percorso di sviluppo della Cina, e, ancora più importante, riflette una forma di resilienza strutturale”.

Proprio su questa resilienza strutturale, secondo le indicazioni di Xi Jinping, si dovrà incentrare il quindicesimo piano quinquennale, che farà da ponte fra lo sviluppo accelerato degli ultimi anni e il raggiungimento dell’obiettivo finale, la famosa “modernizzazione” della Cina entro il 2035.

Le linee guida rimangono più o meno le stesse che in questi anni ci siamo abituati a sentire: lo sviluppo di alta qualità e le “nuove forze produttive” (xin sheng chanli), per rafforzare il percorso della Cina da “fabbrica del mondo” a esportatore di tecnologia d’avanguardia; il perseguimento dell’autosufficienza scientifica e tecnologica, che assume un carattere di urgenza viste le recenti svolte nella ricerca sull’intelligenza artificiale e le restrizioni sui chip imposte dagli USA; la centralità della Beautiful China Initiative, e quindi una spinta alla transizione green e all’energia rinnovabile come motori di crescita; il rafforzamento dei consumi e del mercato interni.

Resilienza strategica

Alle “classiche” linee guida, si aggiunge ora una generale e marcata insistenza sulla sicurezza interna, che vuol dire sì sicurezza sul piano militare, ma anche, forse soprattutto, su quello economico, per ridurre la dipendenza dalle esportazioni ed essere meno vulnerabili a dazi e imprevedibili tempeste tariffarie.

Xi Jinping aveva annunciato questo nuovo corso dello sviluppo cinese già lo scorso 30 aprile, in occasione di un simposio economico a Shanghai: la sicurezza nazionale, non la crescita, sarà adesso il principio organizzativo centrale della pianificazione economica, integrando concetti chiave come resilienza, sovranità tecnologica e mitigazione del rischio. La potenza cinese, scriveva in quei giorni il think-tank Jamestown Foundation, “sta passando dalla massimizzazione della crescita alla resistenza strategica”.

Lo fa, come si diceva, puntando sui settori high-tech, dall’AI ai semiconduttori, dall’aerospazio all’energia rinnovabile e “spostando il suo sviluppo dalla competizione in velocità alla competizione in qualità”, come scrive il Global Times. Ma nello stesso tempo, la Repubblica Popolare mantiene i piedi ben piantati a terra: “al momento la Cina rimane in una fase di sviluppo”, dice il comunicato ufficiale, anche un po’ per sgombrare il campo da illazioni su un cambiamento di stato nei framework internazionali, dopo la recente rinuncia ai “trattamenti speciali” nella WTO. In ogni caso, non sembra che il paese sia intenzionato ad abbandonare il suo ruolo di colosso manifatturiero globale.

“Xi Jinping ha chiarito di non voler abbandonare la produzione di fascia bassa (tessile, abbigliamento, calzature, eccetera), cosa che normalmente accade quando i paesi si modernizzano e risalgono la catena del valore”, scrive su Linkedin il direttore del China-Global South Project, Eric Olander. “Una delle lezioni chiave che Xi ha senza dubbio imparato osservando quanto accaduto negli Stati Uniti e in Europa negli ultimi anni è che quando i paesi si deindustrializzano, ciò provoca sconvolgimenti politici e una reazione populista”. E Xi non vuole correre rischi, visto la situazione di deflazione e sottoccupazione che la Cina sta vivendo.

Ma questa, conclude Olander, “è una cattiva notizia per i paesi a basso e medio reddito che da tempo sognano di seguire la traiettoria di sviluppo della Cina, il che ora sarà molto più difficile, se non impossibile, finché la Cina insisterà a produrre tostapane e scarpe da ginnastica insieme a semiconduttori e droni”.

 

In copertina: Xi Jinping, foto UN Ginevra