In Brasile esiste un diritto chiarissimo, ratificato oltre trent’anni fa in un trattato internazionale: la Consulta Previa Livre e Informada (CLPI). Significa che i popoli indigeni devono essere consultati prima che lo stato approvi progetti, opere, concessioni o politiche che impattano i loro territori.

Non dopo, non a metà del processo, non “in qualche modo”: prima. Eppure questo diritto, stabilito dalla Convenzione 169 dell’Organização Internacional do Trabalho (OIT) è trattato dal Brasile come un ostacolo tecnico, un dettaglio burocratico da aggirare quando possibile, da ritardare quando conviene e da applicare controvoglia quando non c’è alternativa.

Perché spesso, tra quello che gli stati firmano e quello che davvero applicano, passa un abisso. Ma la Consulta non è folklore: è potere democratico. Serve a impedire che decisioni calate dall’alto diventino fatti compiuti per comunità che, per prime, subiscono gli impatti delle “grandi opere”: strade, dighe, porti, miniere.

È uno strumento di contrappeso, di “check and balances”, pensato per agire come freno giuridico e proteggere chi abita, conosce e custodisce gli ecosistemi più fragili. Il documento è chiaro: i popoli indigeni sono "altamente qualificati” per valutare l'impatto di queste opere, proprio perché abitano in quei territori: sono un archivio vivente di dati ambientali e sociali, e quindi la Consulta diventa politicamente scomoda per chi immagina l’Amazzonia solo come un magazzino di risorse da estrarre.

La forza di questo diritto risiede anche nel legame profondo tra comunità e territorio. Per i popoli tradizionali i loro spazi sono un’estensione della propria identità, come archivi di memoria e come garanzia di sopravvivenza culturale. Con la deforestazione massiva e le attività predatorie, il rischio è che nei prossimi decenni non ci sarà più nessuna foresta da proteggere e nessuna cultura che conserva i saperi ancestrali.

Manifestazione dei popoli indigeni a COP30 ©Hope Project

Lo ripete con intensità e rabbia Thaigon Arapiun, leader indigeno della comunità del Baixo Tapajos: “Il governatore vuole organizzare una consultazione con noi, ma non dovrebbe esserci nessuna consultazione dopo. La consulta deve essere prévia, livre e informada”. Con queste poche parole si spiega un intero processo di autodeterminazione dei popoli indigeni brasiliani. Infatti la Convenzione 169 dell’OIT, ratificata dal Brasile nel 2003 e resa operativa nel 2004, stabilisce che la consultazione debba essere condotta attraverso le istituzioni rappresentative di questi popoli, con procedure adeguate e rispettose delle loro culture. “Livre” significa che non devono esserci coercizioni o pressioni esterne; “prévia” implica che il dialogo avvenga prima della decisione e non a posteriori; “informada” richiede che tutte le informazioni rilevanti siano condivise in modo chiaro e accessibile, affinché le comunità possano valutare consapevolmente gli impatti delle opere o delle politiche.

Ma pur riconoscendo formalmente la CPLI, il Brasile, nella pratica, la considera più come un adempimento opzionale, e le comunità spesso hanno denunciato “resistência na aplicação do direito” (resistenza all'applicazione della legge). Si comprende facilmente il perché: la Consulta è uno strumento che priva le istituzioni della possibilità di “fare prima, spiegare dopo”. Impone trasparenza. Impone tempo. Impone contraddittorio.

Proprio per questo viene trattata come un cavillo accessorio, piuttosto che un fondamento democratico. Ed è proprio per questo che la parola “demarcão” (demarcazione) ha echeggiato così tanto fuori e dentro i corridoi di COP30 nelle ultime settimane. La richiesta che arriva a gran voce dalle popolazioni indigene del Brasile per vedere riconosciuti, ma soprattutto, protetti i propri territori.

La demarcazione delle terre indigene è infatti un processo amministrativo e legale attraverso cui lo stato riconosce e definisce i confini dei territori occupati tradizionalmente dai popoli originari. Gestito principalmente dalla Fondazione nazionale dei popoli indigeni (FUNAI), questo iter si svolge attraverso una sequenza di fasi complesse: studi antropologici, approvazioni ministeriali, contestazioni legali e la demarcazione fisica del territorio costituiscono un percorso burocratico spesso estenuante e prolungato nel tempo.

Gli interessi legati all'agribusiness, all'industria mineraria e al taglio del legno esercitano una forte pressione politica per ostacolare le demarcazioni, alimentando un conflitto costante tra lo stato, le comunità indigene e le lobby economiche. In questo scenario, la demarcazione rimane un atto politico e sociale di enorme rilevanza, il cui esito influenza direttamente il futuro dei popoli indigeni e la salvaguardia degli ecosistemi brasiliani.

Alcuni passi in questa direzione sembrano essere stati fatti: 10 terre indigene, distribuite nelle cinque regioni del Brasile, entrano nella fase di demarcazione fisica dopo la firma delle ordinanze che ne dichiarano i limiti territoriali. L’atto è stato sottoscritto dal ministro della giustizia e della sicurezza pubblica, Ricardo Lewandowski, lunedì 17 novembre, in occasione della Giornata dei popoli indigeni celebrata durante la COP30 e dopo l’ondata di manifestazioni che ha caratterizzato il vertice ONU come quello dei popoli indigeni.

La verità, però, è che si tratta solo di una vittoria a metà: da questa prima fase di demarcazione restano fuori altri venti territori indigeni, sospesi nel limbo giuridico dello stato. La terra indigena è sottoposta a continue lotte e minacce, ma, se c’è una cosa che il mondo ha visto con i propri occhi, è che la forza di questi popoli tradizionali non è destinata a scemare, e che, anzi, la forza di chi lotta per i propri diritti è più accesa che mai.

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In copertina: visitatori lungo il corridoio della Green Zone alla COP30. Foto di Alex Ferro/COP30