In Europa la transizione industriale accelera, ma non tutti i motori stanno girando alla stessa velocità. Durante il Consiglio competitività di inizio ottobre a Bruxelles, l’Italia ha stretto un’alleanza con Francia e Germania per chiedere alla Commissione europea di snellire le regole e proteggere la competitività delle industrie energivore, quelle più esposte ai costi energetici e agli obblighi di decarbonizzazione. Una novità che avrà ripercussioni sulle scelte di politica economica dei prossimi mesi.
Per capirne la portata entriamo nel dettaglio: il “non-paper” firmato dai ministri Adolfo Urso e Gilberto Pichetto Fratin, insieme ai colleghi di Parigi e Berlino, si inserisce nel percorso del Clean Industrial Deal e anticipa l’Industrial Decarbonisation Accelerator Act (IDAA), atteso per novembre.
L’obiettivo dichiarato è accelerare la trasformazione dell’industria europea riducendo la burocrazia. Ma, secondo alcuni osservatori e alcuni rumors tra gli esperti della Commissione industria del Parlamento europeo, tra le pieghe del documento si muove una questione più sottile: come conciliare semplificazione e coerenza ambientale, con il rischio che la “flessibilità” apra spiragli alle fonti fossili.
Il testo sottoscritto dai tre paesi individua cinque assi d’intervento: un quadro stabile per gli investimenti, una domanda garantita di prodotti a basse emissioni, protezione dal cosiddetto carbon leakage, prezzi energetici competitivi e parità di condizioni per le imprese europee.
Attenzione alla “fuga di carbonio”
In particolar modo a spaventare le industrie energivore di Francia, Germania e Italia è proprio il carbon leakage, letteralmente “fuga di carbonio”: è il rischio che le imprese europee, gravate da costi energetici e ambientali più alti, trasferiscano la produzione in paesi con regole climatiche meno severe, riducendo le emissioni in Europa ma aumentandole altrove.
Infatti, come spiega a Materia Rinnovabile un insider che ha partecipato al non-paper e preferisce rimanere anonimo, uno dei punti chiave riguarda proprio “la semplificazione del principio Do No Significant Harm (DNSH), che vieta di finanziare con fondi pubblici attività dannose per l’ambiente. Italia, Francia e Germania chiedono di renderlo più ‘funzionale’ per favorire gli investimenti nella transizione’. Ma come interpretare l’espressione “più funzionale?”
Le organizzazioni ambientaliste temono che una simile revisione possa tradursi in una riduzione delle garanzie ambientali, permettendo di includere anche tecnologie solo parzialmente pulite, come impianti alimentati da gas con sistemi di cattura della CO₂. Lo European Environmental Bureau, principale rete europea di ONG ambientaliste, ha più volte chiesto che la semplificazione normativa non diventi un pretesto per ridurre le tutele ambientali.
Insomma, in un contesto in cui Bruxelles invoca la “neutralità tecnologica”, alcune interpretazioni vedono qui il tentativo di lasciare aperta la porta a soluzioni ibride, dove la transizione si fa meno netta e più negoziata.
Un’altra priorità del non-paper è la creazione di un mercato europeo dei materiali low-carbon, a partire da acciaio e cemento. Il Clean Industrial Deal ha già annunciato etichette volontarie per misurare la CO₂ incorporata nei prodotti, con l’obiettivo di creare una domanda stabile per materiali più sostenibili. Ma tutto dipenderà da come verranno definite le soglie di “basse emissioni”. Una classificazione troppo ampia potrebbe includere anche prodotti realizzati con mix energetici che ad esempio contengono gas. Il rischio, avvertono diversi analisti, è che una buona idea finisca per generare una trasparenza di facciata, utile più alla reputazione industriale che al clima.
Priorità alla riduzione dei costi dell’energia
Il fronte trilaterale chiede anche interventi immediati per ridurre il costo dell’energia: accesso più facile alle rinnovabili, taglio degli oneri di rete e prolungamento delle compensazioni per i costi del carbonio oltre il 2030. Una richiesta condivisibile, ma che, letta in controluce, può estendere gli aiuti anche ai settori ancora dipendenti dal gas naturale, come ceramica, vetro e chimica.
In Italia, le imprese con consumo annuo superiore a 1 GWh godono di agevolazioni legate alle green conditionalities introdotte dal Decreto MASE n. 256/2024. Tuttavia, molte associazioni industriali chiedono di alleggerire i vincoli, sostenendo che standard troppo rigidi rischiano di penalizzare la produzione. Una tensione che riflette il nodo centrale della transizione: quanto siamo disposti a cambiare per restare competitivi, e quanto rischiamo di restare fermi per paura di cambiare.
Tre paesi e un patto d’acciaio
Nessun settore sintetizza meglio questo equilibrio precario quanto l’acciaio europeo. Messo sotto pressione dalla sovraccapacità globale, il comparto si muove oggi tra la necessità di difendersi dalla concorrenza e quella di ridurre drasticamente le proprie emissioni. La Commissione europea ha proposto di tagliare del 47% le importazioni a dazio zero − esiste una soglia oltre la quale i dazi aumentano anche fino al 50% − e di raddoppiare i dazi sulle quote eccedenti, mentre l’Italia va oltre e chiede un nuovo strumento di salvaguardia della produzione interna a partire dal 2026.
Il rischio, segnalano diversi analisti, è che questa difesa si traduca in una transizione rallentata, con forni a gas che restano operativi più a lungo del previsto. Il solito paradosso: proteggere l’industria per salvare l’occupazione, e finire per rinviare la decarbonizzazione. Anche la revisione del Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM), che entrerà pienamente in vigore nel 2026, è un punto sensibile. Lo strumento, pensato per evitare il carbon leakage, obbligherà gli importatori a pagare un prezzo per le emissioni incorporate nei prodotti extra UE. Ma l’Italia ha proposto che il calcolo delle emissioni consideri “tutte le fonti energetiche” impiegate nella produzione: una formulazione che, secondo alcuni esperti, potrebbe includere anche il gas come fonte “di transizione”, attenuando l’impatto climatico della misura.
Secondo Carbon Market Watch e altre organizzazioni europee, il Clean Industrial Deal rischia di diventare più industriale che pulito. Il pericolo non è tanto quello di un fallimento, quanto di una transizione a geometria variabile, dove la competitività pesa più della coerenza ambientale e il fossile trova ancora spazio sotto nuove definizioni. Il risultato è un equilibrio fragile: un’Europa che corre verso la neutralità climatica, ma con il freno a mano parzialmente tirato.
L’alleanza tra Italia, Francia e Germania rappresenta un segnale politico forte: i tre motori industriali d’Europa non vogliono sacrificare la produzione sull’altare del clima e bisognerà vedere come reagiranno alla recentissima richiesta USA di allentare la normativa ambientale per le industrie statunitensi presenti nel mercato europeo.
In copertina: Gilberto Pichetto Fratin a colloquio con l’omologo francese Marc Ferracci © European Council