La lettera sul Green Deal del presidente di Confindustria Emanuele Orsini è da leggere con grande attenzione, perché riporta in maniera chiara e ragionevole le legittime critiche e preoccupazioni rispetto alla transizione ecologica.
Il tono delle osservazioni è ben riassunto all’inizio dello scritto: mentre Cina e USA difendono le loro industrie, l’Unione Europea si autoimpone vincoli che limitano la sua competitività. Nello scritto non si sottovaluta l’importanza della cura dell’ambiente, ma viene espressa preoccupazione per il suo peso preponderante, a scapito (viene sostenuto) della dimensione economica.
Ora, nessuno può ragionevolmente pensare che sostenibilità ambientale e profitto debbano essere contrapposti: sarebbe ideologico e sbagliato. Non esiste vera sostenibilità ambientale senza sostenibilità economica. E anche la cosiddetta Just Transition, ovvero il principio per cui le evoluzioni del mercato del lavoro collegate alla transizione ecologica non devono avere conseguenze negative sull’occupazione, non può essere assente nelle riflessioni sulla sostenibilità.
Nei passaggi della lettera nei quali vengono richiamati questi princìpi e dove si evidenziano i rischi connessi, non si può essere in disaccordo. Non condivido, invece, altri ragionamenti.
Su tutti, il leitmotiv “l’UE pesa per il solo 6% delle emissioni di CO₂ mondiali”, che rischia di essere fuorviante. Gran parte della produzione destinata al mercato europeo è infatti delocalizzata in paesi che consumano energia ed emettono anidride carbonica per realizzare beni poi consumati in Occidente. Trovo quindi fortemente ingiusto sgravarsi dalla responsabilità di queste emissioni, facendo venire meno all’Europa un ruolo di attore attivo di orientamento del modello di produzione e della presa in carico dei princìpi di sostenibilità che il continente può giocare a livello internazionale. Oltretutto, lo spostamento delle produzioni è un fenomeno ben precedente al Green Deal, a riprova che grandi mutamenti sono avvenuti ben prima delle politiche per la sostenibilità.
Nella lettera, viene riconosciuta la necessità di regolare la tematica delle emissioni esterne: si sottolinea infatti che il CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism, semplificando: una carbon tax su alcune categorie di prodotto importate da mercati extra UE) andrebbe ampliato. Questa considerazione mi vede pienamente d’accordo: uno strumento che permette di internalizzare i costi esterni legati alle emissioni di CO₂ e di allinearli con quelli del mercato UE (dove il Green Deal opera a favore di questa internalizzazione) è fondamentale per non creare squilibri nella concorrenza. A ulteriore riprova del fatto che il ruolo dell’Europa è quello di far valere il proprio peso geopolitico e che il Green Deal contiene elementi in grado di rafforzare questo tipo di governance, riconoscendola come decisiva per il raggiungimento degli obiettivi climatici.
In conclusione, è importante ricordare che gli obiettivi dello sviluppo sostenibile non mirano a rendere più complicato il fare impresa in nome di qualche feticcio ideologico, ma hanno una natura estremamente pratica. Tra questi: renderci meno dipendenti da fonti energetiche e da materie prime estere, ampliando l’autoproduzione di energia da fonti rinnovabili e le capacità di riciclo e recupero; garantire condizioni di lavoro dignitose nelle filiere (soprattutto, e giustamente, extraeuropee); ridurre le emissioni di inquinanti in aria, acqua e suolo che danneggiano la nostra salute.
Si tratta di finalità condivisibili da chiunque, perché, se calate nella realtà d’impresa, attengono alle sfere dell’innovazione e della legalità. La sfida deve essere quindi quella di coniugare questi valori all’interno di un paradigma economico più giusto e sostenibile, non quella di arretrare, come purtroppo la UE sta facendo, sulle tematiche ESG.
Le opinioni contenute in questo articolo sono espresse dall’autore e non riflettono necessariamente quelle delle realtà per cui lavora.
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In copertina: la stazione di Rotterdam fotografata da Nick Staal, Unsplash
