Dieci anni fa, alla 21ª Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, l'Accordo di Parigi unì il mondo nella lotta contro il cambiamento climatico. Grazie a questo accordo storico, 195 paesi si impegnarono a adottare misure nazionali per ridurre le emissioni di gas serra al fine di limitare il riscaldamento globale, rafforzando al contempo l’adattamento agli effetti sempre più gravi dei cambiamenti climatici.

Ricordo ancora le due lunghissime, complesse settimane, che portarono all’Accordo più importante di questo secolo. Tra notti insonni, croissant e caffè francese, bozze di testi, in una Parigi blindatissima (meno di un mese prima si era tenuta la strage del Bataclan con 130 morti), migliaia di persone lavorarono instancabilmente per mettere a terra l’accordo.

Frutto di molti anni di negoziati nell'ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) istituita al Vertice della Terra di Rio nel 1992, l'Accordo di Parigi definì un quadro mondiale per scongiurare la distruzione irreversibile causata dal cambiamento climatico, mandando un segnale inequivocabile sugli enormi benefici economici e sociali dell'azione per il clima tra tutte le nazioni e tutti i popoli.

Per chi segue il tema climatico come me – sono oramai 17 anni – sono chiarissimi i progressi concreti ottenuti. In questa decade il clima è diventato un discorso centrale in politica, nel mondo finanziario-assicurativo, in quello industriale, nella difesa, come abbiamo analizzato nell’ultimo numero della rivista, Infrastrutture e persino nell’attivismo. Il tema clima per anni è stato presente nell’agenda della società civile ma mai in primo piano: fino al 2009 non esistevano quasi ONG dedicate integralmente al tema, 350.org fu una delle prime, dando alla luce l’Italian Climate Network. Greta Thunberg stessa è una figlia dell’Accordo di Parigi.

Cosa ci dice la scienza dell’Accordo di Parigi? prima di questa cooperazione globale sul clima, il riscaldamento avrebbe probabilmente superato i 4°C rispetto ai livelli preindustriali entro il 2100. Oggi siamo verso i 2,8°C. L’obiettivo più ambizioso rimane 1,5°C. Se non avessimo firmato l’Accordo, l’aumento delle temperature medie globali avrebbe avuto effetti devastanti sugli ecosistemi, sulle economie e sulle società di tutti i paesi. Ma grazie alla collaborazione tra le nazioni siamo riusciti a invertire la tendenza e a compiere i primi passi verso la resilienza climatica.

Cosa rese possibile l’Accordo di Parigi? Innanzitutto, un contesto globale progressista, basato su crescita economica e crescita sociale. In USA c’era Barack Obama, l’Europa era rappresentata da un saggio come Frans Timmermans (all’epoca vicepresidente della Commissione europea), la Cina guidata da un grande negoziatore, Xie Zhenhua, stimato dal presidente cinese e con ottimi rapporti con lo statunitense Todd Stern. Le Nazioni Unite erano un’istituzione solida e la cooperazione internazionale e la diplomazia sembrava vivessero in un momento di grazia. Da poco si erano resi operativi gli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile. Nell’aria c’era la possibilità di vivere in un mondo migliore.

Poi è arrivato Trump, il populismo antiscientifico, la rabbia da tastiera delle frustrazioni di chi non aveva capito il potenziale di trasformazione. Ma anche la paura della transizione, le guerre commerciali e a colpi di PR dell’industria fossile, la reazione restauratrice dei petrostati, le nuove guerre, il genocidio palestinese.

Il decimo anniversario dell'Accordo di Parigi, dunque, deve essere un momento di riflessione e una chiamata all'azione. Mai come oggi serve arrestare – e non solo per il clima – l’onda patriarcale, restauratrice, petroliberista, guerrafondaia, novecentesca che vuole minare sicurezza e sviluppo duraturi, negando il futuro a noi e alle generazioni di domani.

Tra il 2027 e il 2029 arriveranno nuove tornate elettorali fondamentali, dagli USA all’Italia, dall’India all’Unione Europea. Se vogliamo correggere la traiettoria presa all’interno delle COP, e resa evidente dal fallimento brasiliano di COP30, serve un cambio alla direzione dei paesi chiave nel G20 e soprattutto serve ricostituire il multilateralismo statunitense con una nuova dottrina.

Infine, la riforma delle Nazioni Unite arriva in un momento critico, in cui l’organizzazione internazionale ha raggiunto il suo minimo storico in termini di influenza. Dal 1° gennaio 2027 ci sarà un nuovo segretario generale alle Nazioni Unite che dovrà dare seguito all’accorata azione dell’uscente António Manuel de Oliveira Guterres, che avrà il compito entro il 2030 di riformare i negoziati sulla natura (le 3 COP di clima, biodiversità e desertificazione), istituendo un Consiglio per l’ambiente direttamente sotto il segretariato ONU al pari del Consiglio di sicurezza.

Per plasmare l’accordo di Parigi, partendo dal fallimentare negoziato COP15 di Copenaghen del 2009, sono serviti sei anni di lavoro diplomatico, politico, civico e giornalistico. Oggi il tempo a disposizione è molto meno, e il contesto ancora più difficile. Il compleanno dell’Accordo di Parigi ci ricorda però che raggiungere un accordo ambizioso, anche quando sembra impossibile, un sogno, una visione irraggiungibile, se gestito con acume, volontà politica, pianificazione, collaborazione e pressione dal basso, torna a essere alla nostra portata.

 

In copertina: la chiusura di COP21, foto di Iga Gozdowska via Flickr