Donald Trump continua a presentare i dazi come un costo che “pagheranno gli altri”, ma lo scenario attuale mostra, per il momento, una situazione tutt’altro che favorevole per gli Stati Uniti. L’ultimo report del Peterson Institute for International Economics mostra che, fino a luglio 2025, il peso è ricaduto quasi interamente sulle imprese statunitensi: le entrate tariffarie sono arrivate a 122 miliardi di dollari, senza che i prezzi praticati dagli esportatori esteri siano calati né che i consumatori a stelle e strisce abbiano subito aumenti significativi sui beni importati.
Le imprese americane hanno dovuto assorbire i dazi attraverso margini compressi, utilizzando stock importati prima dell’imposizione tariffaria o accollandosi costi extra di liquidità, senza che dal lato europeo o asiatico vi sia stato un adeguamento al ribasso.
Dazi: una tassa per gli importatori americani
Il PIIE sottolinea che l’effetto sui consumatori è rimasto limitato: tra gennaio e luglio 2025 l’indice PCE dei prezzi al consumo per spese personali, monitorato dalla Federal Reserve, è aumentato appena dell’1,2%. Nel frattempo i prezzi dei beni importati erano in media solo del 2% più alti rispetto a ottobre 2024. Se i consumatori non hanno percepito un incremento marcato, significa che i dazi sono stati per ora neutralizzati dalle imprese stesse. In termini concreti, gli importatori hanno visto ridursi lo spread tra costo d’acquisto e prezzo di vendita, accollandosi l’onere della nuova tassa. Non si tratta solo di redditività compressa: in molti settori, le aziende hanno dovuto anticipare i pagamenti doganali senza la possibilità di ribaltarli immediatamente sul mercato, con effetti sulla liquidità e sulla pianificazione finanziaria.
Lo studio del PIIE documenta anche un altro aspetto: le aziende che importano beni soggetti a dazi hanno in parte contenuto l’impatto attingendo a scorte accumulate prima dell’entrata in vigore delle tariffe. Ma questo margine di manovra si esaurisce rapidamente e non può essere replicato a lungo. Gli economisti avvertono che, una volta smaltite le scorte, le imprese saranno costrette ad accettare margini ancora più bassi o a scaricare i costi a valle.
In entrambi i casi l’economia americana ne esce penalizzata o con aziende meno competitive, o con consumatori che iniziano a pagare di più.
Il paradosso è evidente: i dazi che avrebbero dovuto colpire l’Europa, la Cina e gli altri partner hanno finito per agire come una tassa interna sulle imprese americane. In più, il Congressional Budget Office stima che, se le tariffe venissero mantenute per un intero decennio, contribuirebbero sì a ridurre il debito federale di circa 2.800 miliardi di dollari, ma al costo di una crescita più debole e di un’inflazione più alta. La “cura” rischia quindi di pesare più del male che intendeva curare.
I settori più esposti: energia e materiali
È in questo contesto che si inseriscono i settori più esposti, a cominciare dall’energia. Gli Stati Uniti dipendono in larga parte dall’importazione di componenti chiave per le rinnovabili: moduli fotovoltaici, inverter, turbine eoliche, batterie e cavi. I dazi hanno fatto crescere i costi medi dei progetti e alimentato l’incertezza. Il report US Solar Market Insight Q2 2025 della Solar Energy Industries Association mostra che le nuove installazioni solari negli USA sono diminuite rispetto allo stesso periodo del 2024, con un calo evidente anche nel segmento residenziale. L’IEA Global Energy Review 2025 rileva che, sebbene le rinnovabili restino il comparto in più rapida crescita a livello globale, negli Stati Uniti la pressione sui margini sta già rallentando decisioni di investimento.
Lo stesso vale per i materiali. Acciaio e alluminio sono stati tra i primi bersagli della crociata tariffaria. World Steel in Figures 2025 evidenzia come la produzione e il commercio mondiale restino concentrati in pochi paesi, con l’Europa tra i principali fornitori. Gli Stati Uniti importano ogni anno decine di milioni di tonnellate di acciaio; con l’inasprimento dei dazi, che su alcune categorie hanno raggiunto il 50%, gli importatori americani hanno visto crescere i costi senza ricevere alcuno sconto dai partner esteri. L’European Steel in Figures 2025 conferma che l’UE ha importato circa 27,4 milioni di tonnellate di prodotti siderurgici finiti nel 2024, restando però un esportatore netto verso i mercati terzi.
Per l’Europa una resilienza inaspettata
Per l’Europa, il risultato è una resilienza inattesa. Le imprese UE non hanno dovuto comprimere i prezzi per mantenere accesso al mercato americano, e nel frattempo hanno potuto salvaguardare la redditività. Nel settore delle tecnologie pulite questo si traduce in un vantaggio competitivo: componenti di alta qualità, materiali specializzati e tecnologie green europee restano appetibili, mentre i competitor statunitensi affrontano costi più alti e margini più stretti. Ciò apre opportunità non solo negli USA, dove alcuni progetti potrebbero subire ritardi, ma anche in mercati terzi come Africa, America Latina e Asia, dove la domanda di infrastrutture e rinnovabili cresce rapidamente e la capacità europea di garantire affidabilità e standard ambientali può diventare un fattore decisivo.
Nel complesso, il quadro che emerge indica che i dazi finora hanno operato come una tassa sui margini delle imprese americane, più che come barriere efficaci contro i partner esteri. Energia e materiali sono i settori più esposti, dove l’aumento dei costi e l’incertezza regolatoria già impattano investimenti, pipeline progettuali e competitività. Per l’Europa c’è un mix di rischio e opportunità: il rischio è che il protezionismo statunitense si allarghi o che il pass-through dei costi verso i consumatori acceleri, ma l’opportunità è quella di essere “faro alternativo” nei mercati globali, puntando su qualità, standard ambientali-industriali e catene di fornitura resilienti.
In copertina: Matt Benson, Unsplash