Prosegue la saga dei dazi trumpiani. Dopo l’invio, lunedì 7 luglio, delle letterine di ultimatum a vari paesi in tutto il mondo, martedì il presidente statunitense ha deciso di sparigliare ancora un po’ le carte dei già piuttosto confusi mercati internazionali, annunciando (sul suo social Truth, come è ormai consuetudine) un altro dazio del 50% sul rame.
La nuova tariffa, che nella visione di Donald Trump dovrebbe servire a rilanciare la produzione domestica statunitense del fondamentale metallo, è stata ufficializzata mercoledì 9 luglio ed entrerà in vigore dal 1° agosto.
Intanto, com’era prevedibile, è partita la corsa al rame, facendone schizzare in alto i prezzi sulle borse internazionali, con quella di New York che martedì 8 luglio ha chiuso addirittura a 5,69 dollari per libbra, il livello più alto mai registrato dal 1969. Un effetto sorpresa anche per gli analisti più scafati, che, come ha dichiarato JP Morgan, si aspettavano tariffe non più alte del 25%. Alla temporanea euforia dei mercati, rispondono le preoccupazioni di molti economisti statunitensi, che avvertono dei prossimi inevitabili e pesanti contraccolpi sui consumatori americani.
Perché i dazi sul rame
Trovare una motivazione logica per politiche tariffarie che, come avvertono tutti gli economisti, danneggeranno in primis proprio i cittadini statunitensi è impresa ardua. Ancora di più quando si tratta di una materia prima come il rame, indispensabile per svariati settori alla base di qualsiasi economia. Lo stesso Trump, nel suo post su Truth, ha scritto: “Il rame è necessario per semiconduttori, aerei, navi, munizioni, data center, batterie agli ioni di litio, sistemi radar, sistemi di difesa missilistica e persino armi ipersoniche, che stiamo costruendo numerose”.
Ma proprio l’importanza strategica del metallo avrebbe spinto la Casa Bianca a ordinare, lo scorso febbraio, un’indagine sulle importazioni di rame, avvalendosi di una vecchia legge – la Sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962 – che autorizza il presidente degli Stati Uniti a imporre dazi elevati su prodotti di importazione per motivi di sicurezza nazionale. La “solida valutazione” ricevuta a seguito dell’indagine, si legge nello stesso post su Truth, avrebbe dunque reso necessari i nuovi dazi, per spingere la produzione interna di rame e assicurare le supply chain.
Cile, Canada e gli Apache: scompiglio sulle rotte del rame
Gli Stati Uniti, attualmente, dipendono per circa la metà del loro fabbisogno di rame dalle importazioni, e solo nel 2024, secondo i dati del’US Geological Survey, ne avrebbero importate ben 810.000 tonnellate.
Tuttavia, nonostante la Cina, nemico giurato di questa guerra commerciale, domini la raffinazione del rame, questa volta non c’entra nulla con le importazioni statunitensi, che arrivano per il 90% da Cile, Canada e Perù: paesi che non minacciano in alcun modo gli interessi USA, il che rende obiettivamente poco comprensibili le preoccupazioni per la sicurezza nazionale addotte a pretesto.
Il Cile in particolare rappresenta il 70% in valore dell’import di rame raffinato, e il presidente della Confindustria cilena, Rosario Navarro, ha già messo le mani avanti, avvertendo che dazi di questa portata potrebbero “danneggiare gravemente le relazioni commerciali” tra i due paesi.
Anche il presidente della Mining Association del Canada, Pierre Gratton, ha cercato di riportare la questione sui binari della ragionevolezza, ricordando come le forniture di rame siano indispensabili per le infrastrutture energetiche statunitensi e che gli Stati Uniti al momento sono ben lontani dall’avere una capacità di raffinazione del rame sufficiente a garantirsi l’approvvigionamento necessario.
Quasi tutto il rame prodotto negli USA, infatti, viene oggi estratto in Arizona, dove però l’apertura di una nuova gigantesca miniera pianificata dalle multinazionali minerarie Rio Tinto e BHP è bloccata da oltre un decennio, per un contenzioso con vari gruppi di nativi americani. Sembra probabile, a questo punto, che sull’altare dei dazi verranno sacrificati anche i luoghi sacri degli Apache.
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