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La rivoluzione digitale, la dematerializzazione del lavoro, il web, i social network ci danno oggi la falsa impressione di aver alleggerito la nostra impronta materiale sul mondo. Viviamo e lavoriamo costantemente connessi ad ambienti virtuali, ma perdiamo sempre più di vista il legame con il mondo concreto delle risorse, dei minerali estratti dalla roccia, degli utensili affondati nel suolo, della materia. Eppure è ancora, e sarà sempre, l’impalcatura fisica del mondo materiale a sorreggere l’universo immateriale in cui, ingannandoci, crediamo di vivere.

A correggere questa distorsione prospettica ci ha pensato Ed Conway con il saggio La materia del mondo. Una storia della civiltà in sei elementi, edito in Italia da Marsilio e vincitore del Premio Galileo 2024.

Lo scrittore e giornalista britannico si tuffa in uno straordinario viaggio nel mondo materiale, seguendo il lungo processo che trasforma la sabbia silicea in microchip, scendendo in profonde e bianchissime miniere di sale, entrando negli altoforni dove si fonde la roccia per ottenere il ferro, insinuandosi nei cavi di rame che portano l’elettricità in ogni angolo del pianeta, intrufolandosi nelle raffinerie di petrolio e affacciandosi sull’orlo degli spettrali laghi salmastri da cui si ricava il litio. E intanto disegna la mappa intricata delle catene di fornitura globali, degli impatti ambientali, degli interessi geopolitici e si interroga sulla resilienza della nostra civiltà, spesso appesa alla vulnerabilità di monopoli industriali in angoli remoti del pianeta. Con Ed Conway abbiamo fatto una lunga chiacchierata su sfide presenti e necessità future, fra mondo materiale e immateriale.

 

Come è nata l'idea del libro?

Volevo capire un po' meglio il mondo. Sono un giornalista e scrittore di economia, e credo che molti economisti non siano davvero interessati alla provenienza delle cose, sono più che altro concentrati sul loro prezzo. Mentre io mi sono sempre chiesto da dove vengano tutti i prodotti che uso quotidianamente, quali materie prime occorre estrarre dal sottosuolo per produrli, e cosa succede lungo il percorso. La trovo una storia piuttosto interessante. Una volta cominciato quel viaggio, visitando le miniere e i luoghi di produzione, si inizia a capire quanto questi processi siano ad alta intensità energetica, e anche prodotti che sembrano estremamente moderni e “puliti”, come i microchip o i pannelli solari, in realtà generano parecchie emissioni di carbonio durante la produzione. Ci sono, naturalmente, ragioni di ciclo di vita per cui a lungo termine è meglio ottenere energia dai pannelli solari piuttosto che dal carbone. Credo tuttavia che un sacco di gente non abbia idea dei processi che occorrono per realizzare questi prodotti a partire dalle materie prime. È dunque anche un punto di osservazione piuttosto interessante per pensare alla questione climatica.

Il libro costruisce una storia della civiltà attraverso sei materiali: sabbia, sale, ferro, rame, petrolio e litio. Perché ha scelto proprio questi sei?

Be’, io amo i dati. Ma non c'erano dati, non c'erano tabelle o grafici che affermassero che queste sei sono le sostanze più importanti al mondo. Quindi ho fatto una cosa da giornalista: ho parlato con molte persone – geologi, scienziati, economisti, esperti del settore manifatturiero – e ho chiesto la loro opinione. Sapevo che volevo parlare di sabbia, perché dalla sabbia si possono ottenere i chip di silicio, ma anche il cemento, entrambi piuttosto fondamentali. Sapevo che probabilmente avrei dovuto parlare di rame, perché è essenziale per l'elettricità. Ma c'erano alcuni materiali di cui ero meno sicuro. Ad esempio, avevo bisogno di un materiale usato per le batterie e inizialmente pensavo al cobalto, che si estrae per buona parte in Congo ed è legato a controverse questioni di diritti umani. Ma, secondo gli esperti di batterie che ho interpellato, l'elemento che continuerà a essere davvero importante è il litio: è molto difficile fare a meno del litio per la sua alta densità energetica, mentre si possono realizzare buone batterie anche senza cobalto. E poi c’è il sale. Molti geologi mi hanno detto che è un materiale estremamente interessante. Ma è stato solo quando ho iniziato a capire che così tante sostanze chimiche e farmaceutiche da cui dipendiamo sono a base di sale che ho deciso di includerlo. Ad esempio, l'acqua del rubinetto viene purificata con il cloro, che deriva dal sale. Il litio per i pannelli solari viene estratto con l’aiuto di sostanze chimiche, anche queste ottenute dal sale. Una parte enorme dei nostri sistemi di supporto vitale oggi deriva dal sale, esattamente come per i nostri antenati.

Nonostante il progresso, la nostra dipendenza dal mondo materiale non è dunque cambiata molto nei secoli.

Una delle cose che ci definisce come esseri umani è la nostra capacità di estrarre rocce dal suolo e trasformarle in strumenti per migliorare la qualità della vita. Oggi prendiamo le pietre e le trasformiamo in chip di silicio; i nostri antenati prendevano le pietre e le trasformavano in asce. Ma lo schema è sempre lo stesso, anche se adesso è molto più sofisticato. Eppure, non passiamo molto tempo a pensare alla nostra connessione, come specie, con il mondo che ci circonda. Penso che sia questo, almeno in parte, il motivo per cui siamo così poco consapevoli dei danni ambientali che generiamo.

Questa relazione tra mondo materiale e immateriale è il tema di fondo del suo libro. Ma quand’è che abbiamo iniziato a credere di vivere in un "mondo immateriale"?

È una domanda interessante. Penso che sia avvenuto abbastanza di recente. Non è passato molto tempo da quando la maggior parte delle persone lavorava nell'agricoltura, nella manifattura o nell'estrazione mineraria. E quando lavori in quei settori, fai parte di una filiera di produzione “fisica”. In Europa, un tempo avevamo enormi aziende manifatturiere, aziende chimiche, giganteschi impianti di assemblaggio, le nostre aziende automobilistiche erano molto più grandi, e c’erano milioni di persone che ci lavoravano. È solo negli ultimi cinquant’anni circa che siamo diventati molto più efficienti e non abbiamo più bisogno di tante persone che lavorino nell’agricoltura, così come nel settore minerario, visto che per lo più andiamo a estrarre da qualche altra parte nel mondo. La stessa cosa vale per la manifattura. Perciò sempre meno persone sono fisicamente coinvolte nella filiera che va dalla materia prima al prodotto finale, e l’esistenza di questo lungo percorso ci sembra meno reale.

Sembra però che questa falsa percezione appartenga principalmente ai paesi occidentali.

Sì, è sicuramente una percezione più diffusa in Europa e negli Stati Uniti. Tuttavia, più in generale si può dire che ovunque i processi industriali sono diventati così efficienti che non c’è più bisogno di tante persone che lavorino, ad esempio, nelle raffinerie o negli impianti chimici. La cosa che mi sorprende quando vado a visitare questi luoghi è che non c'è nessuno. In un'acciaieria molti anni fa avresti visto migliaia di persone al lavoro, ma oggi è tutto così automatizzato che ne servono solo poche centinaia. E questo vale fondamentalmente per quasi tutti i processi di cui mi sono occupato. La produzione di semiconduttori a Taiwan è così automatizzata che gli impianti sono chiamati “lights out fabs”: significa che puoi semplicemente spegnere le luci, perché non c'è bisogno di un singolo essere umano lì dentro, e la fabbrica continua a funzionare. Il risultato di tutto questo è che il "mondo materiale" non è più al primo posto nei pensieri delle persone. L'agricoltura è ormai una minuscola frazione del PIL. È l'1% del PIL nel Regno Unito, e prima era il 45%. Eppure abbiamo ancora bisogno di mangiare. Se si è focalizzati solo sul PIL, come fanno molti economisti, si può arrivare a pensare che un euro di PIL che deriva da un social network sia uguale a un euro di PIL che deriva dall'agricoltura o dall'attività mineraria. Ma, riflettendoci razionalmente, è chiaro che non può essere vero, perché quell'euro di PIL dell'agricoltura può potenzialmente tenerci in vita, mentre non sarebbe la fine del mondo se Facebook non esistesse. Secondo me, oggi questo è un punto cieco nell'economia.

Ed è infatti un’altra questione molto interessante affrontata nel libro: lo sganciamento del valore monetario dei materiali dalla loro effettiva importanza per le nostre vite.

Sì. In un certo senso è una storia di successo perché questi beni sono diventati più economici: il cibo è più economico, il cemento è più economico... Però si perde di vista il fatto che, se non ci fosse ad esempio il cemento, molte delle occupazioni che svolgiamo oggi non potrebbero esistere.
E non ci sono al momento meccanismi di aggiustamento per includere questo valore nell’ambito dell'economia convenzionale, il che è un grosso problema.

Un altro tema sorprendente di cui parla nel libro è la complessità delle supply chain globali. La carenza di semiconduttori, che durante la pandemia ha colto di sorpresa molti governi, ci ha fatto improvvisamente rendere conto di questa complessità. Crede che oggi i decisori politici e le istituzioni siano un po’ più consapevoli del funzionamento delle catene di fornitura globali?

Penso che la pandemia abbia lanciato molti campanelli d'allarme su questo tema. La carenza di semiconduttori è uno. Anche la carenza di DPI, i dispositivi di protezione individuale come le mascherine, è un altro esempio. Nel libro ho raccontato un altro episodio. Nel Regno Unito c’era un impianto di fertilizzanti che ha chiuso a causa dell'alto prezzo del gas. Quello stesso impianto, però, produceva anche l'anidride carbonica utilizzata per le bevande gassate, oltre a quella che veniva usata per la macellazione dei maiali. Così la chiusura di quel solo stabilimento, con grande sorpresa del governo britannico, ha fatto sì che all'improvviso non potessimo più mangiare bacon a colazione. Questi esempi dimostrano che la nostra comprensione di come funzionano le catene di fornitura è incredibilmente primitiva. Credo che dovremmo impegnarci di più per mappare, visualizzare e comprendere come le aziende siano dipendenti le une dalle altre.
Uno dei saggi da cui ho preso ispirazione è un libro degli anni Cinquanta di Leonard Read intitolato I, Pencil, in cui l’autore spiega la filiera di una matita. Il saggio è stato scritto all'apice della Guerra Fredda, quando molte persone guardavano alla pianificazione centralizzata come a una possibile soluzione. Ma Read illustra una catena di fornitura tanto complessa che nessuno conosce davvero ogni sua parte. Quindi, come è possibile realizzare davvero una pianificazione centralizzata? Questo è il messaggio che persone come Milton Friedman hanno tratto da quel saggio. Ma, secondo me, non c’è bisogno di essere grandi sostenitori della pianificazione centralizzata per credere che sia importante una migliore comprensione del funzionamento dell’economia e delle interrelazioni nella catena di fornitura. Negli Stati Uniti, il Dipartimento del commercio ha condotto un'indagine molto ampia sulla supply chain dei chip di silicio. Non vedo perché non dovremmo farlo per ogni settore. So che è impossibile capire tutto, ma allo stesso modo in cui cerchiamo di capire la produzione aggregata dell'economia usando il PIL, non vedo perché non potremmo provare a capire la relazione fra le sue diverse parti usando un'altra misura. Ma in questo momento nessuno, per quanto ne so, lo sta facendo. Ed è un problema.

In effetti lo è, anche perché questa complessità nasconde un aspetto piuttosto preoccupante come la presenza di monopoli. Lungo la filiera dei semiconduttori possiamo trovarne alcuni particolarmente inquietanti, come quello della miniera di Spruce Pine, che descrive nel libro. Questa miniera nel North Carolina è l'unica fonte sull'intero pianeta di un quarzo altamente puro, che viene utilizzato per realizzare i crogioli in cui viene fuso il silicio per i chip. Se dovesse succedere qualcosa a quel sito, l'intera filiera dei microchip sarebbe messa a repentaglio.

Esatto. Di recente l'uragano Helen ha causato enormi inondazioni a Spruce Pine e la miniera è stata chiusa per settimane. Improvvisamente le persone hanno capito che quel posto è davvero importante ed è molto vulnerabile. Esistono un sacco di questi punti critici… Penso che la globalizzazione incoraggi le aziende a provare a specializzarsi nei più oscuri fra i processi industriali, per diventare i produttori più economici di quella particolare risorsa. Così ci sono molte fabbriche talmente specializzate da essere uno dei due o tre produttori in tutto il mondo di un determinato componente, e semplicemente non sappiamo, finché quella fabbrica non ha un problema, quanto siamo esposti. Ripeto: dobbiamo provare a pensare all'economia mondiale un po' di più come a una mappa delle dipendenze. È come se ci trovassimo nel primo periodo dell’esplorazione del mondo, quando non esistevano ancora buone mappe. Dobbiamo allora crearle.

A proposito di dipendenze, la storia delle materie prime va di pari passo con la storia dell'energia. C'è qualche possibilità, secondo lei, che con la nuova transizione energetica saremo in grado di evitare gli errori e gli impatti di quelle precedenti?

Dovremmo stare attenti a dare per scontato di essere più saggi dei nostri antenati, perché spesso erano molto più intelligenti di quanto pensiamo. Credo comunque che ci sia l'opportunità di provare a fare questa transizione in un modo migliore. Siamo consapevoli di molti degli errori fatti in passato, ma il problema è che continuiamo comunque a commetterne. Quindi probabilmente si finirà per causare danni lungo il percorso. Non possiamo negare che, per raggiungere il net-zero, se vogliamo mantenere i nostri standard di vita, allora ciò comporterà molto più sfruttamento di risorse, perché dobbiamo costruire le infrastrutture, i trasformatori, i tralicci, le turbine eoliche, le batterie. E questa è un'impresa infrastrutturale industriale enorme.

In effetti, crediamo di vivere in un'era di dematerializzazione, in cui vengono estratte sempre meno risorse, ma la verità controintuitiva è che l'attività estrattiva è in aumento e continuerà ad aumentare nei prossimi anni. Cosa possiamo fare al riguardo? Crede che l'economia circolare avrà un ruolo importante?

Non lo so proprio. A volte sono ottimista, altre volte sono pessimista. Il punto fondamentale della transizione energetica è che, invece di estrarre minerali dal suolo per bruciarli, si estraggono minerali e si usano per costruire. E le cose che si costruiscono, che si tratti di turbine eoliche o batterie per auto elettriche, teoricamente sono riciclabili. Anche se al momento non siamo molto bravi a riciclarle, possiamo però migliorare. In teoria potremmo arrivare a un ciclo chiuso, ma la realtà è che un ciclo completamente chiuso non è possibile dal punto di vista della termodinamica. Quindi dovremo ancora estrarre in futuro, anche se non così tanto. Tuttavia, ciò che mi rende un po’ dubbioso sull’esito finale di questo processo è che ad alcuni esseri umani piace pensare continuamente a cose nuove da fabbricare con tutta l'energia e tutti i materiali che abbiamo. Quando è stata inventata la lampadina a LED, i suoi ideatori hanno ricevuto il premio Nobel perché, si diceva, avrebbe salvato il pianeta. Ma la realtà è che, invece di accontentarci di mantenere la stessa quantità di illuminazione, abbiamo aumentato enormemente il numero di lampadine LED ovunque, visto che questa tecnologia è molto economica e accessibile.

Il paradosso dell’efficienza…

Sì, esattamente. L'appetito per le cose aumenta, non diminuisce mai. E questo non significa che un cambiamento sia impossibile, ma è una fatica di Sisifo. È un processo davvero difficile. E, come ho detto, a volte sono ottimista, a volte sono pessimista.

 

In copertina: Ed Conway