La transizione ecologica e la sfida climatica sono in grave crisi. Con il ritorno dei negazionisti alla Casa Bianca e l’incertezza della classe dirigente europea si spegne l’entusiasmo degli ultimi dieci anni. Dunque, è arrivato il momento di confrontarsi con gli errori e le questioni irrisolte. A mettere un tassello in questo discorso ci prova il festival del magazine tecnologico Wired, che quest'anno a Rovereto porta in scena il tema “energie”, un invito ad agire e ripensare il nostro rapporto con il pianeta e la società, esplorando le forze umane, tecnologiche, ambientali.
Dell’impasse politica ed economica che attanaglia l’Occidente abbiamo parlato con Giulio Boccaletti, direttore scientifico della Fondazione Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC), fisico di formazione e formidabile divulgatore. Boccaletti sarà sul palco del Wired Next Fest il 4 ottobre (alle ore 17.25) con il geografo e penna di The Water Observer Filippo Menga.
Boccaletti, lei ha da poco pubblicato un saggio dal titolo Il futuro della natura (Mondadori, 2025) in cui critica una narrazione interamente apocalittica e rimette in prospettiva la visione manichea della natura.
Negli ultimi quarant’anni abbiamo affrontato il cambiamento climatico e in generale la questione climatica come un fatto di sola urgenza morale. L’inquadramento col quale si affrontavano queste questioni era dipingere un futuro possibile di effetti estremi nella speranza di convincere tutti a non andare in quella direzione. Abbiamo investito in questo immaginario morale di lungo periodo − nato ai tempi dell'Agenda di Rio nel 1992, anno in cui si creò la Convenzione quadro dei cambiamenti climatici − ma non abbiamo esplorato come affrontare la questione nel momento in cui il clima cambia davvero. E così le emissioni hanno continuato a crescere, la biodiversità diminuisce sempre più rapidamente e l’immaginario del cambiamento climatico di lungo periodo ha lasciato spazio a cambiamenti reali. Oggi, fenomeni di cambiamento diventano tangibili, specie in Italia, paese che ha la sfortuna di soffrire in maniera acuta degli effetti climatici. Dunque, viene meno l’inquadramento moralistico e dobbiamo decidere cosa fare. E qui la scienza può aiutare ma non può dirci cosa fare: non perché la scienza sia sbagliata, ovviamente, ma perché non è mai stato compito della scienza definire ciò che è giusto fare. Questo è compito della politica. Il problema delle decisioni in una società governata da leggi e da patti costituzionali non è credere tutti la stessa cosa o semplicemente accordarsi sui fatti, bisogna arrivare a una sintesi con cui, nonostante valori diversi, nonostante credenze diverse, si fa una scelta collettiva: un’azione squisitamente politica.
Nel libro parte da una critica all’estetizzazione della natura, citando i documentari di David Attenborough.
Quella natura non è la stessa con cui dobbiamo interfacciarci oggi. In Italia è fortemente antropizzata, si è evoluta con noi e adesso va gestita non come in passato ma in un modo completamente diverso, a partire del riassorbimento della CO₂, di cui non si parla abbastanza.
Lei definisce gli ecosistemi come infrastrutture essenziali, che devono essere gestite dalla politica sui territori. Un intervento umano molto forte e definitivo sulla natura.
Non definitivo − non è mai definitivo − e non necessariamente forte, ma dobbiamo smettere di considerare l'ambiente come una cartolina o un paesaggio e pensarlo come infrastruttura, questo sì. Il fiume non è solo le dighe e i ponti, ma anche le rive e il fiume stesso, con un comportamento, dei servizi e delle funzioni. L’infrastruttura stradale non è solo l’asfalto ma anche la natura che la circonda, gli alberi che la punteggiano.
Insiste molto sul tema del diritto e cita ripetutamente l’articolo 3 della Costituzione, uno dei fondamentali, che dice: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese”.
Deve essere il nostro obiettivo eliminare gli impedimenti alla realizzazione piena della persona umana, lavorando per dare alla gente prosperità, sicurezza sul territorio, una vita migliore. Oggi è evidente che questo si fa con investimenti collettivi sia ingegnerizzati che nella natura: una società tecnologica che riesce a incorporare le funzioni ecosistemiche senza abbandonare la modernità. È ciò che definisco un approccio progressista, inteso nel senso ampio di progresso, di evoluzione.
A fine settembre, all’Assemblea ONU, Trump ha riportato il negazionismo climatico in mondovisione: non certo un incentivo all’ottimismo. Ha rifiutato la scienza.
Io credo che sia stato un errore, sia tattico che sostanziale, immaginarsi che l'autorità e la legittimità di quello che dobbiamo fare per il clima e l’ambiente derivino esclusivamente dalla scienza. Se è ovvio che la scienza illumini i problemi che affrontiamo e offra soluzioni, non è dalla scienza che arriva la legittimità dell'azione. Quella deriva dal patto civico che ci unisce. La scienza non ha un valore normativo. Sono le leggi e la giurisprudenza che definiscono cosa possiamo o dobbiamo fare e che creano gli incentivi per il nostro agire. L’analogia con la salute pubblica è utile. Ciò che rende legittimo l’agire su base scientifica sono le istituzioni che veicolano quei fatti in normative che sono state oggetto, appunto, di dibattito politico e giurisprudenza: l'Istituto superiore di sanità, il Ministero della salute ma anche le leggi e le corti che hanno definito i limiti coi quali lo stato può intervenire nella vita delle persone. E questo in termini ambientali è successo solo su alcune questioni di inquinamento per cui ci sono responsabilità specifiche, non ancora per il clima o la biodiversità. C’è ancora molto da fare. Basti pensare alla riforma costituzionale dell’articolo 9, quello che “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”. La piena esecuzione di quell’intento si avrà solo quando la giurisprudenza sul tema arriverà fino in Corte costituzionale, così deliberando per casi specifici su cosa lo stato italiano e la Repubblica definiscono un ecosistema. Hannah Arendt diceva che la politica si fa con le parole che tutti possono dominare. La scienza per definizione non produce quelle parole, né è il suo ruolo definire cosa dovremmo fare. Può solo fornirci gli strumenti per dibattere su cosa vogliamo fare.
Su politica e diritto soprattutto si è lavorato di meno. Eravamo talmente presi a leggere grafici e interpretare modelli che abbiamo dimenticato il coinvolgimento della popolazione da un punto di vista della cosa pubblica. Allo stesso tempo non abbiamo sottolineato abbastanza l’impatto economico. La nostra rivista, Materia Rinnovabile, ribadisce spesso che la transizione è una questione di stabilità economica e sicurezza pubblica, non ambientale.
Le risorse economiche sono un termine del ragionamento. Per l’adattamento non servono cifre inarrivabili. E l’inazione oggi costa tantissimo. Basti pensare che le alluvioni del 2023 sono costate 15 miliardi di euro, una mezza manovra finanziaria. Il problema anche in questo caso è politico. La missione sul rischio idrogeologico con l’inventario delle opere avviata dal governo Renzi venne cancellata dal governo successivo. Spesso l’intento politico dell’esecutivo è poi mediato dalle istituzioni sul territorio che sono frammentate, si veda ad esempio quando bisogna prendere decisioni sulla gestione dei corpi fluviali. Servono una visione del futuro per agire e istituzioni che siano coordinate per attuarla. Altrimenti, anche se ci sono le risorse economiche, l’azione sarà insufficiente.
In copertina: Giulio Boccaletti