Mentre si avvicina l'assemblea dell'Autorità internazionale dei fondali marini − che dal 7 luglio si riunirà in Giamaica per negoziare un complesso regolamento relativo allo sfruttamento delle risorse minerarie in acque profonde internazionali − c’è chi si guarda in casa. Come Donald Trump, che ad aprile ha dato il via libera al deep sea mining in acque statunitensi.

Ma all’estrazione mineraria in zone economiche esclusive, ovvero le acque territoriali sulle quali è lo stato a esercitare la propria giurisdizione e quindi i propri interessi economici, ci pensa da tempo anche il governo italiano.

Lo scorso anno, durante un convegno di Fratelli d’Italia a Pescara, il ministro delle politiche del mare Nello Musumeci si disse favorevole all’estrazione mineraria nelle acque nazionali, “se compatibile coi fondali marini”. Anche il ministro delle imprese Adolfo Urso aveva menzionato “l’estrazione dal mare” come attività da cui le aziende possono attingere i fondi stanziati dalla legge sulla blue economy.

Finora sono 33 i paesi che hanno chiesto una moratoria sull’estrattivismo marino in acque internazionali, almeno finché non sarà fatta maggiore chiarezza sugli impatti ambientali. Tra i paesi firmatari non c’è l’Italia che però, facendo parte del consiglio dell’International Seabed Authority (ISA), non si espone e in vista dei negoziati mantiene una certa cautela.

Tuttavia nel Mediterraneo la storia cambia. Il governo Meloni ha lasciato intendere di voler supportare il deep sea mining, potendo contare sull’apporto dell’industria pesante, soprattutto dei colossi SAIPEM e Fincantieri, che nel 2020 firmarono un memorandum di intesa. Ma oltre agli annunci politici, quali sono le vere potenzialità minerarie delle acque e delle coste italiane?

Le risorse minerarie marine in Italia

Per le acque territoriali italiane l’unico database a oggi disponibile è consultabile sul sito di ISPRA, l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. La mappa è frutto di un programma di ricerche condotte negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso che, tra le altre cose, stimò le risorse minerarie marine presenti nella penisola.

“Le sabbie costiere derivano dall’erosione della terra”, spiega a Materia Rinnovabile Fiorenzo Fumanti, geologo di ISPRA. “Abbiamo delle sabbie ricche di titanio in Liguria, sabbie titanifere con terre rare nel Sud della Sardegna e il tungsteno in Calabria. Ma le situazioni più interessanti le rileviamo sulle montagne sottomarine come Palinuro e le isole Eolie.”

Secondo Fumanti prima di intervenire su aree così ricche di biodiversità è necessario valutare attentamente i costi e i benefici. “Se dobbiamo andare a distruggere un ecosistema come quello delle Eolie per ricavare piccoli quantitativi di materia, non ne vale la pena. Considerando anche la questione di competizione economica con altri settori rilevanti come il turismo e la pesca”, dice Fumanti consigliando cautela.

Insomma, il gioco deve valere la candela e quindi il parere di ISPRA non sembrerebbe favorevole all’estrazione mineraria in aree così delicate.

Da quanto emerge dalla mappa, che contiene dati aggiornati a trent’anni fa, alla base delle Eolie ci sono camini idrotermali ricchi di solfuri polimetallici, minerali che si trovano sui fondali oceanici e contengono una combinazione di metalli tra cui rame, zinco e ferro.

Rischi del deep sea mining in Italia: non solo perdita di biodiversità

Uno dei maggiori pericoli legati al deep sea mining è la distruzione degli ecosistemi marini profondi, ancora in gran parte sconosciuti. Nelle aree più studiate, come la Clarion-Clipperton Zone nel Pacifico, il 50% delle specie vive sopra i noduli polimetallici, le stesse formazioni ricche di metalli strategici ricercati dall’industria. Rimuoverli significa quindi cancellare habitat unici e danneggiare l’equilibrio della catena alimentare oceanica.

Il processo solleva inoltre nuvole di sedimenti, il cui impatto è ancora poco conosciuto e che potrebbero compromettere la pesca nella zona. Le conseguenze non sono poi solo ecologiche, ma anche climatiche: i fondali oceanici sono enormi serbatoi di carbonio, e disturbare questi ambienti può rilasciare CO₂ immagazzinata da millenni e compromettere la capacità dell’oceano di assorbirne di nuova.

Le potenzialità del deep sea mining nell’Oceano Artico e Atlantico

Negli ultimi anni, diversi studi hanno indagato la presenza di risorse minerarie nei fondali marini che circondano l’Unione Europea. Tra le iniziative più recenti c’è il progetto GSEU (Geological Service for Europe), nato con l’obiettivo di raccogliere e rendere accessibili dati e conoscenze geologiche per sostenere la transizione verde, e che si occupa, tra i vari temi, anche di quello che c’è in fondo al mare.

Per questa ricerca, finanziata dall’Unione Europea, vengono utilizzati ROV per acquisire video e immagini ad alta risoluzione, oltre a prelevare campioni geologici, biologici e di acqua dal fondale marino. Grazie a strumentazioni geofisiche, il team sta inoltre lavorando alla realizzazione di mappe cartografiche dettagliate e all’analisi delle strutture presenti sotto il fondale.

“Stiamo mappando i depositi minerari presenti nei mari europei, dall’Artico al Mediterraneo, passando per il Mar Nero, il Baltico e l’Atlantico. Forniamo alla Commissione europea e ad altri attori istituzionali informazioni su dove si trovano queste risorse, se contengono materie prime critiche come cobalto, tellurio, manganese o terre rare. Realizziamo anche mappe predittive per identificare nuove aree potenzialmente ricche di minerali,” spiega Francisco Javier González, geologo marino del Geological Survey of Spain (IGME-CSIC), a Materia Rinnovabile. Lo raggiungiamo al telefono mentre si trova a bordo di una nave di ricerca al largo delle Canarie, impegnato nello studio delle montagne sottomarine dell’area, i cosiddetti seamounts.

Secondo González, alcune zone promettenti si trovano negli arcipelaghi della Macaronesia e nell’Oceano Artico: “Nel Nord, la ricerca si sta concentrando sui solfuri massicci, associati a rame, oro e altri materiali strategici. Nella regione della Macaronesia, come nell’area delle isole Canarie, ci aspettiamo concentrazioni più elevate di cobalto, manganese e terre rare”.

Il potenziale, insomma, non manca. Tuttavia, restano ancora molte incognite sulle dimensioni effettive dei giacimenti e sulla quantità di materie prime critiche contenute. “Prima di avviare qualsiasi tipo di sfruttamento è fondamentale affrontare le questioni ambientali e definire un quadro normativo chiaro”, avverte González. Insomma, serve cautela.

È possibile un’estrazione responsabile?

Considerata l’esigenza di limitare gli impatti del deep sea mining, le principali compagnie minerarie guardano a metodi estrattivi alternativi, meno invasivi. “La via tradizionale consiste nell'immergere una ruspa con una cavo e dragare il fondale marino tentando di raccogliere noduli e solfuri polimetallici”, spiega Fumanti. “Gli esperimenti condotti con questo metodo hanno mostrato impatti ambientali significativi, anche a distanza di trent’anni, perché il coefficiente di ricostruzione geomorfologica di questi ecosistemi marini è estremamente basso".

Oggi però esistono nuovi sistemi di aspirazione delle sabbie senza fuoriuscita di materiale che causa torbidità. All’avanguardia del deep sea mining responsabile c’è l’azienda statunitense Impossible Metals, che ha sviluppato un robot sottomarino autonomo (AUV) in grado di raccogliere selettivamente i noduli polimetallici grazie all’intelligenza artificiale e a un motore di galleggiamento. Tutto riducendo al minimo l’impatto ambientale sugli habitat marini.

Lo scorso 15 aprile Impossible Metals ha presentato una richiesta per avviare un processo di esplorazione ed estrazione di minerali critici nelle profondità marine al largo della costa delle Samoa americane. Dalle indagini geologiche preliminari ritiene infatti che l'area individuata contenga un ricco giacimento di minerali essenziali, tra cui nichel, cobalto, rame, magnesio e terre rare.

Un’altra tecnica promettente è il "metal biomining" o estrazione batterica di metalli. Si tratta di un processo in cui microrganismi, come batteri, vengono utilizzati per estrarre metalli da rocce o rifiuti minerari. L’azienda Bluevolution, per esempio, sfrutta le capacità naturali di bioaccumulo delle alghe per reperire questi materiali essenziali, offrendo un'alternativa rinnovabile ed ecologica alle pratiche minerarie tradizionali.

 

In copertina: il faro di Strombolicchio fotografato da Lyle Wilkinson, Unsplash