In un periodo in cui l'industria del riciclo fatica a essere competitiva, il tasso di circolarità europeo è fermo all’11% e la fame di materia non si placa, alla transizione circolare europea sta mancando evidentemente qualcosa. Sarà il nuovo Circular Economy Act, che la Commissione europea intende lanciare nel 2026, a dare una scossa? Ne abbiamo parlato con Paolo Campanella, segretario generale dell’Associazione europea per la gestione rifiuti (FEAD) che in un position paper propone delle raccomandazioni per una legge sull'economia circolare solida e attuabile.

 

Segretario generale Campanella, quali sono secondo FEAD le principali problematiche dell'industria del riciclo?

L’aspetto chiave è che a oggi è difficile avere una rappresentazione completa dei benefici economici e ambientali che porta il riciclo. Come ha sottolineato anche Mario Draghi nel suo ultimo rapporto, i materiali vergini non includono nel prezzo le esternalità ambientali. Questo avvantaggia economicamente le materie prime vergini rispetto a quelle riciclate.

In tutti i settori è così?

No. Alcuni settori del riciclo funzionano bene, come i metalli, il vetro o la carta. Settori in cui è più conveniente comprare riciclato. Ma quando si va oltre, per esempio sulle plastiche o sulle materie prime critiche, mancano economie di scala, i costi sono alti e poche aziende sono in grado di trattare questi rifiuti. Inoltre, c’è una scarsa domanda: per questo abbiamo chiesto da tempo dei target obbligatori di contenuto riciclato, che la creano. Senza domanda, è difficile ci sia offerta. Servono politiche che obblighino o incentivino l’uso di materiali riciclati, così da stimolare investimenti anche in impianti più specializzati e in qualità più elevate.

Ma non esiste già, per esempio, un obbligo per le bottiglie di plastica monouso con almeno il 25% di contenuto riciclato?

Sì, ma nonostante l’obbligo l’anno scorso il riciclo del polipropilene in Europa è diminuito del 5%, anche perché molte aziende importano plastica riciclata dall’estero senza tracciabilità o certificazione. Questo crea un ulteriore svantaggio competitivo e porta alla chiusura degli impianti di riciclo.

Come si può creare concretamente uno stimolo economico che spinga le aziende a comprare materiale riciclato, riconoscendo il valore delle esternalità evitate? Cosa pensate, ad esempio, dei cosiddetti plastic credits?

Su questo c’è molto scetticismo. L’industria potrebbe concentrarsi più sul credito in sé che sull’uso effettivo del materiale riciclato. Si rischierebbe un paradosso: l’azienda compra crediti per abbattere le proprie emissioni, indipendentemente dalla qualità del riciclato, e il materiale potrebbe finire nell’applicazione più bassa possibile. Inoltre, aprirebbe il mercato a crediti esteri più economici, con il rischio di compromettere la filiera europea. Noi chiediamo piuttosto che venga riconosciuto il valore delle avoided emission del riciclo. Non necessariamente tramite crediti, ma ad esempio con sistemi fiscali che rendano più vantaggioso scegliere materiali riciclati.

Che tipo di regimi fiscali?

Per esempio, oggi non c’è differenziazione nella tassazione dei packaging se contengono o meno contenuto riciclato. Si parla anche di spostare la tassazione dal lavoro ai materiali vergini, ma è un tema complicato: per modificare la fiscalità a livello europeo serve l’unanimità. In alternativa, servono incentivi economici diretti, accesso facilitato a fondi o riduzioni fiscali per chi investe nel riciclo o utilizza materiali riciclati.

Nel paper chiedete un obiettivo vincolante del 25% di “tasso di utilizzo circolare dei materiali” entro il 2030. Un target ambizioso…

Oggi siamo al 12%. Chiediamo un target del 25% vincolante perché crediamo che fissare una barra alta possa stimolare la domanda di riciclato. Ma posso già dire che questo non avverrà: nel Clean Industrial Deal è stato inserito solo come indicatore di performance, non come obiettivo obbligatorio, perché negli ultimi dieci anni il Circular material use rate è cresciuto solo dell’1%.

Il 2 luglio la Commissione UE ha lanciato una serie di iniziative in vista del tanto atteso Circular Economy Act, che includono anche la digitalizzazione delle procedure sui rifiuti dal 2026. Rientra nella semplificazione che chiedete o servono misure diverse?

Sicuramente la digitalizzazione è positiva ed era già prevista nel Regolamento sui trasporti transfrontalieri dei rifiuti (WSR). Ma il problema è che molti rifiuti non pericolosi sono passati dalla lista verde a quella ambra, che implica procedure di notifica più complesse. Quindi chiediamo non solo una digitalizzazione armonizzata e facile da usare, ma anche di rivedere queste liste per facilitare il trasporto dei rifiuti con alto potenziale di riciclo. Inoltre, servono tempi certi e regole armonizzate per le autorizzazioni: oggi cambiano da paese a paese o persino da regione a regione, bloccando gli investimenti.

È molto interessante e per certi versi controversa la vostra posizione sul sistema EPR (Responsabilità estesa del produttore). Ce la può spiegare?

Secondo noi andrebbe usato solo dove c’è un “market failure”. Se un flusso di rifiuti già funziona bene, con ottime raccolta e domanda, l’EPR non aggiunge nulla. Siamo stati grandi sostenitori dell’EPR per i tessili, un settore che non funziona per nulla, dove dal 2025 c’è l’obbligo di raccolta separata ma mancano infrastrutture e domanda. Invece i metalli, per esempio, reggono benissimo senza EPR. Il produttore sa che gli conviene riciclare perché ha bisogno di quella materia prima. In Francia hanno introdotto un EPR per i rifiuti da costruzione, ma è un settore dove già c’è un alto tasso di riciclo, e rischia solo di complicare inutilmente il sistema.

Almeno in Italia la termovalorizzazione dei rifiuti residui e non riciclabili è una soluzione ottimale per molti operatori. Siete d’accordo?

Non vogliamo demonizzare nessun trattamento: incenerimento e discarica oggi sono necessari perché ci sono rifiuti che non entrano nel sistema circolare. Però bisogna rispettare la gerarchia europea dei rifiuti e agire a monte, progettando prodotti più riciclabili. Altrimenti il termovalorizzatore diventa solo la toppa a un problema creato altrove. Il riciclo genera nuova economia, mentre discarica e incenerimento sono un costo. Ma finché i prodotti non saranno progettati per l’economia circolare serve anche questo tipo di impianti.

Come proponete di gestire le sostanze tossiche nell’ottica dell’economia circolare?

Ci sono già molte leggi, dai POPs alle direttive europee. Serve però vietare queste sostanze dalla produzione, dando tempo all’industria del riciclo di adattarsi. Altrimenti vietare subito un materiale anche nel riciclato bloccherebbe la circolarità. Servono limiti armonizzati a livello europeo, standard raggiungibili dalle tecnologie attuali e un equilibrio tra riduzione del pericolo e sviluppo dell’economia circolare, magari introducendo un approccio di risk assessment, per cui se un prodotto, pur contenendo sostanze tossiche, non crea rischi effettivi alla salute umana o all’ambiente, è riciclabile finché non sarà completamente toxic free.

 

In copertina: Paolo Campanella