Alla COP30 di Belém, il commercio globale è entrato per la prima volta in modo esplicito all'interno di un negoziato sul clima. Era inevitabile: la transizione non è più solo diplomazia climatica nei perimetri dell’UNFCCC, oggi è anche competizione economica.

Nei primi giorni della COP30, un gruppo di paesi guidato dalla Cina, insieme a India e Arabia Saudita, ha insistito affinché nell’agenda della COP fosse inserita una discussione sulle “misure commerciali unilaterali”. Il riferimento, neppure troppo velato, è al Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) europeo, lo strumento con cui l’UE dal 2026 applicherà ai prodotti importati un prezzo sul carbonio equivalente a quello imposto alle industrie europee dall’ETS (il sistema europeo di scambio delle emissioni).

Acciaio, alluminio, cemento, fertilizzanti, elettricità e idrogeno saranno i primi settori coinvolti. Per Bruxelles è una misura volta a evitare il carbon leakage (la “fuga di carbonio”, ovvero la rilocalizzazione delle produzioni in paesi senza o con minori vincoli alle emissioni), oltre a impedire che le imprese europee che investono nella transizione siano penalizzate rispetto a concorrenti esteri che non pagano il costo delle emissioni.

Tuttavia, in un mondo in cui le catene del valore della transizione sono globali, ogni misura domestica ha ripercussioni geopolitiche, e infatti per molti il CBAM è una minaccia. Già a Bonn – sede dei negoziati intermedi − la Cina aveva denunciato che la misura europea “aggirerebbe” l’Accordo di Parigi e i princìpi del commercio internazionale. A Belém, Pechino ha ribadito che tali misure violerebbero il principio delle responsabilità comuni ma differenziate. In altre parole: i paesi in via di sviluppo non possono essere trattati come quelli avanzati, e imporre loro una carbon tax europea significa scaricare costi sproporzionati su economie che stano ancora costruendo la propria base industriale.

L’argomento trova eco nel G77 (gruppo negoziale che comprende oltre 130 paesi in via di sviluppo), dove molti temono il possibile proliferare di meccanismi simili, che rischierebbero di erodere ulteriormente la competitività delle economie emergenti. È un timore reale, ma la risposta più efficace non sarebbe bloccare questi strumenti, bensì discutere come renderli interoperabili e trasparenti a livello multilaterale.

C’è poi una contraddizione che raramente viene messa in luce. Da una parte, Pechino è la potenza manifatturiera delle tecnologie della transizione (le cosiddette clean tech), infatti domina su pannelli solari, batterie, veicoli elettrici e componentistica, e sta elettrificando trasporti e generazione elettrica più rapidamente di qualsiasi altro paese. Sempre più analisti la descrivono come un “elettro-stato”, capace di trainare la diffusione globale delle tecnologie pulite e di farne crollare i costi. Dall’altra parte, questa leadership convive con un settore industriale ancora fortemente legato a produzioni primarie in acciaio, cemento, alluminio, ovvero settori hard to abate, con tempi di trasformazione molto più lenti rispetto a quelli dell’energia e dei trasporti.

Eppure, diversi paesi, compresa la stessa Cina, riconoscono che il CBAM stia esercitando una pressione positiva verso l’introduzione di strumenti di carbon pricing domestici. Brasile, Giappone, Corea del Sud e altri stanno sviluppando o ampliando sistemi ETS proprio per trattenere le entrate e alleggerire l’onere sui propri esportatori. Anche Pechino ammette, nei corridoi negoziali, che il meccanismo europeo ha contribuito ad accelerare la costruzione del suo mercato nazionale del carbonio sebbene ancora limitato e con prezzi che restano circa dieci volte inferiori a quelli europei.

La tensione è stata così forte che la presidenza brasiliana ha dovuto intervenire per evitare che la COP30 si trasformasse in un braccio di ferro commerciale. Il Brasile ha insistito affinché la conferenza rimanesse centrata sugli impegni climatici, non sulle dispute tariffarie, sottolineando il potenziale del commercio come veicolo di diffusione delle tecnologie verdi. Per incanalare il confronto, il Brasile ha lanciato un nuovo forum con sede a Ginevra, pensato per collegare clima e commercio senza sovrapporsi all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), un tentativo per evitare che le tensioni vadano a esacerbarsi in pieno vertice climatico.

La domanda di fondo, tuttavia, resta aperta: è davvero possibile affrontare la transizione energetica senza ripensare le regole del commercio internazionale? La COP30 ha mostrato che siamo entrati in una nuova fase: la diplomazia climatica non riguarda più soltanto obiettivi di emissioni e finanza, ma anche la riscrittura del patto industriale globale. Ignorarlo non è un’opzione. Se il commercio diventa un terreno di scontro, rischiamo di rallentare proprio quella transizione che dovremmo accelerare.

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In copertina: Ding Xuexiang, vice primo ministro della Cina nel suo discorso di apertura alla Conferenza dei leader di COP30. Foto Isabel B./COP30