da Siviglia - Si è aperta stamattina, lunedì 30 giugno, a Siviglia, la quarta Conferenza internazionale delle Nazioni Unite sul Finanziamento allo Sviluppo (FfD4), a dieci anni dall’adozione dell’Action Agenda di Addis Abeba. Per quattro giorni, leader politici, istituzioni multilaterali, imprese e società civile si confronteranno su uno dei nodi più critici dell’agenda globale: come garantire che il sistema finanziario internazionale sia in grado di sostenere l’attuazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) e di rispondere alle sfide attuali, comprese quelle poste dal cambiamento climatico.

La conferenza si chiuderà con la promulgazione formale del Compromiso de Sevilla, adottato per consenso lo scorso 17 giugno dopo una negoziazione lunga due anni e in un contesto geopolitico teso e segnato dal ritiro formale degli stati Uniti a dicembre al termine del secondo comitato preparatorio, a New York, in un contesto internazionale in cui la distanza tra ambizione e realtà continua ad ampliarsi e il raggiungimento degli SDG sembra sempre più lontano.

I mesi che hanno preceduto l’incontro hanno visto un'accelerazione del dibattito internazionale, con proposte convergenti da parte di attori diversi − dal gruppo di esperti nominato dal segretario generale ONU al Jubilee Report commissionato da Papa Francesco − che chiedono una riforma profonda dell’architettura finanziaria globale, nuovi strumenti per ridurre il costo del capitale e una più equa condivisione dei rischi.

Il debito (in)sostenibile dei paesi a basso reddito

Secondo le Nazioni Unite, solo il 16% dei target previsti dall’Agenda 2030 è oggi in linea con le tempistiche stabilite, oltre il 50% è in ritardo, e circa il 30% mostra segnali di regressione. La fotografia finanziaria non è meno allarmante: il gap annuale per finanziare lo sviluppo sostenibile ha raggiunto i 4.000 miliardi di dollari, con il fabbisogno finanziario che dal 2015 è cresciuto del 60%, a fronte di un aumento dei flussi disponibili di appena il 22%.

Negli stessi anni, non solo il debito pubblico dei paesi a basso e medio reddito è cresciuto in modo significativo, al doppio della velocità di quello dei paesi ad alto reddito, ma è cresciuto in forme sempre meno sostenibili. A oggi, il 54% del debito pubblico estero dei paesi in via di sviluppo è detenuto da creditori privati (era il 40% nel 2010), con tassi più elevati, maggiore volatilità e minori margini di rinegoziazione.

Nel 2023, i costi per il servizio del debito nei paesi in via di sviluppo hanno raggiunto i 921 miliardi di dollari, in aumento di 74 miliardi in un solo anno. Il risultato è che 3,4 miliardi di persone nel mondo vivono in oltre cinquanta paesi in cui la spesa pubblica per gli interessi sul debito supera quella destinata a salute e educazione.

In questo scenario, il concetto stesso di “debito sostenibile” perde significato. La posta in gioco non è più solo il tentativo di evitare il default formale: l’alternativa tra rimborsare i creditori o investire in sviluppo umano è diventata una costante, soprattutto in Africa, dove l’OCSE stima che trentotto paesi spendano più del 10% delle entrate pubbliche solo in interessi passivi. L’UNCTAD segnala che nel 2023 il rapporto tra servizio del debito ed esportazioni nei paesi meno sviluppati ha superato il 25%, dieci punti percentuali in più rispetto all’anno precedente.

Una crisi sistemica della finanza internazionale

Si allarga anche il divario tra economie avanzate e paesi a basso reddito. Dal 2015, la convergenza economica globale ha subìto un’inversione: la crescita pro capite nei paesi più fragili è stagnante o negativa, e il differenziale con i paesi ad alto reddito è tornato ad ampliarsi. Quella che per anni è stata descritta come una crisi silenziosa della finanza pubblica si è ormai trasformata in una crisi sistemica, con effetti di lungo periodo sulla coesione sociale, la capacità fiscale e la possibilità stessa di pianificare investimenti. In molti casi, l’indebitamento non è più una leva per accelerare lo sviluppo, ma un fattore che lo frena.

Aumentano così i casi di vulnerabilità sistemica. Trentacinque paesi sono oggi classificati dal Fondo monetario internazionale come in default o a rischio elevato, e ventisei si trovano in questa condizione da almeno sette anni. Eppure, solo quattro (Chad, Ghana, Etiopia e Zambia) hanno ottenuto una ristrutturazione parziale attraverso il Common Framework per la ristrutturazione del debito promosso dal G20 nel 2020.

I ritardi, le ambiguità procedurali e l’assenza di obblighi per i creditori privati hanno compromesso la credibilità del meccanismo e, nonostante alcuni tentativi di riforma, il quadro resta inadeguato a fronte della frammentazione dei creditori e dell’urgenza di soluzioni coordinate, come ribadito anche dalla piattaforma dell’Unione Africana lanciata a Lomé a metà maggio.

La crisi non è solo finanziaria. È anche il sintomo di un’asimmetria più profonda, che si manifesta nell’accesso al capitale, nella gestione del rischio e nella capacità di investimento. I paesi a basso reddito pagano tassi da due a quattro volte superiori rispetto ai paesi OCSE, pur essendo spesso più esposti agli effetti del cambiamento climatico, delle crisi alimentari e delle pressioni demografiche. Le condizioni di finanziamento, anziché agire da volàno, alimentano il circolo vizioso della vulnerabilità, soprattutto in assenza di reti di protezione multilaterali efficaci.

Nel frattempo, il sistema multilaterale mostra segni evidenti di affaticamento. Il taglio del 20% previsto per il 2025 per i flussi di aiuto pubblico allo sviluppo (ODA, Official Development Assistance), lo smantellamento dell’agenzia USAID e la cancellazione di 5.300 programmi di cooperazione per un valore di 75 miliardi di dollari da parte dell’amministrazione Trump hanno ridotto la capacità d’intervento dei principali attori tradizionali.

Le Nazioni Unite stesse affrontano una crisi di liquidità senza precedenti. I segnali di frammentazione non sono solo istituzionali, sono anche politici e commerciali. Le tensioni tra grandi economie, l’uso strategico dei dazi e il ritorno delle guerre commerciali stanno incidendo sulla fiducia nei mercati internazionali, rallentando gli investimenti e peggiorando le condizioni di accesso al credito per i paesi più esposti.

Il Compromesso di Siviglia: sei leve per riformare la finanza globale

Il Compromesso di Siviglia riflette questo iato tra ambizione e realtà: da un lato riafferma gli impegni multilaterali sanciti nei testi delle tre precedenti conferenze internazionali sul finanziamento allo sviluppo − il Consenso di Monterrey (2002), la Dichiarazione di Doha (2008) e la Action Agenda di Addis Abeba (2015) −, dall’altro si limita a raccomandazioni non vincolanti sui nodi più controversi, come il debito e la finanza per il clima.

Come per i testi precedenti, il Compromesso è articolato su sei pilastri: mobilitazione delle risorse domestiche (che include policy, banche pubbliche di sviluppo e cooperazione internazionale su tassazione o flussi finanziari illeciti); attrazione degli investimenti privati (nazionali e internazionali); cooperazione internazionale allo sviluppo (ODA, cooperazione Sud-Sud, banche multilaterali di sviluppo, finanziamenti agevolati e finanza per il clima); promozione del commercio internazionale; sostenibilità del debito; coerenza sistemica dell’architettura finanziaria internazionale. 

Ma se la struttura resta quella delle edizioni precedenti, lo spirito con cui vengono affrontati i nodi della finanza per lo sviluppo riflette un contesto molto più critico. I paragrafi sulla mobilitazione di risorse domestiche riconoscono l’urgenza di riforme fiscali più eque, progressive e trasparenti, ma si fermano ben prima di affrontare il cuore del problema: l’asimmetria nella governance internazionale della fiscalità. Il dibattito sul trasferimento delle competenze tributarie globali dalle mani dell’OCSE all’ONU, oggi sostenuto da un’ampia maggioranza di paesi in via di sviluppo, resta sullo sfondo. La bozza della futura UN Framework Convention on Tax viene appena menzionata, segno delle tensioni ancora irrisolte.

Finanza privata e cooperazione pubblica allo sviluppo

Più articolata, ma altrettanto ambivalente, è la sezione dedicata alla finanza privata. Se da un lato si moltiplicano le iniziative per rafforzare i mercati dei capitali nei paesi in via di sviluppo, ampliare l’uso di strumenti come i thematic bonds e rafforzare la bancabilità dei progetti, dall’altro resta del tutto irrisolta la questione dell’effettivo impatto di queste risorse.

Il Compromesso di Siviglia evita di definire criteri rigorosi su addizionalità e trasparenza, mentre gli stessi target di mobilitazione fissati dalle banche multilaterali di sviluppo (BMS), spesso disattesi, non sono vincolanti né verificabili. Il rischio, già oggi concreto, è quello di un sistema che sovrastima la leva privata e sottovaluta la necessità di investimenti pubblici strutturali. E, se da un lato si promuove l’inclusione di microimprese, PMI e imprenditoria femminile, dall’altro mancano fondi dedicati per sostenere in modo mirato tali platee.

Ancora più delicata la questione dell’ODA, la cooperazione pubblica allo sviluppo, al centro di un capitolo che segnala tanto la sua importanza quanto la sua crisi. Il testo richiama gli impegni storici dello 0,7% del GNI da parte dei paesi sviluppati − oggi ancora lontani: nel 2023 l’ODA si è fermata allo 0,33% − e auspica un riequilibrio verso flussi non debitori, in particolare per i paesi meno avanzati.

Ma la realtà raccontata dai dati è quella di un arretramento: l’attenzione spostata su crisi più vicine, la frammentazione crescente degli strumenti, la difficoltà nel rispettare il principio di country ownership. Anche le riforme delle banche multilaterali di sviluppo (BMS), chiamate a triplicare la propria capacità di prestito, avanzano a rilento, con misure come hybrid capital e local currency lending ancora in fase sperimentale. Il rischio è che le BMS si muovano come entità isolate, senza coordinamento né visione sistemica.

Commercio, debito e architettura finanziaria globale

Il paragrafo sul commercio internazionale ripropone le promesse di sempre, ma dentro uno scenario globale profondamente mutato. Il sistema WTO è in stallo, le tensioni tariffarie aumentano, e i paesi in via di sviluppo restano ai margini delle catene globali del valore. Il testo cita l’African Continental Free Trade Area come opportunità, ma non offre soluzioni operative su logistica, tracciabilità, o finanza commerciale.

L’“aiuto al commercio” per i paesi meno sviluppati (Least developed countries, LDC) dovrebbe raddoppiare entro il 2031, secondo quanto stabilito nel Doha Programme of Action, ma il Compromesso di Siviglia non chiarisce da dove verranno le risorse. Sul tema più strategico, la lavorazione locale dei minerali critici e delle materie prime, si evocano partnership globali e supporto tecnico, ma senza affrontare le asimmetrie nei contratti, nei flussi di capitale e nei margini di valore.

Un paragrafo è dedicato anche alle misure unilaterali sul commercio: un tema a cuore a molti paesi non occidentali, che si oppongono fermamente all’implementazione del CBAM, il meccanismo europeo di aggiustamento del prezzo alle frontiere sulla base delle emissioni dei beni prodotti all’estero, che, se da un lato tutela la competitività delle industrie europee sottoposte a ETS (il mercato dei crediti di carbonio europeo), dall’altro scoraggia l’acquisto di beni da parte di imprese europee in paesi con sistemi produttivi sottoposti a criteri ambientali meno stringenti.

La sezione sul debito è la più interessante e densa del testo. Le misure proposte − dalla creazione di una piattaforma per i paesi debitori alla diffusione di clausole state-contingent, dalla revisione dei criteri di sostenibilità del debito alla riforma del Common Framework del G20 − delineano una mappa chiara dei problemi sistemici, seppur senza garanzie di implementazione.

I paesi africani continuano a pagare tassi d’interesse fino a otto volte superiori rispetto a controparti con rating simile, mentre le ristrutturazioni restano lente, incomplete e dominate dai creditori. Il Compromesso auspica un dialogo strutturato all’ONU, ma l’inerzia delle istituzioni finanziarie internazionali è ancora evidente. La riforma più invocata − una nuova architettura globale per il debito − viene rimandata a un processo negoziale futuro, con tutti i rischi politici del caso.

Sull’architettura finanziaria globale, il testo rilancia l’urgenza di una riforma sistemica che ampli la rappresentanza dei paesi in via di sviluppo nei processi decisionali e rafforzi la rete di sicurezza finanziaria, oggi frammentata e inadeguata a rispondere a crisi sistemiche.

Si chiede un uso più strategico dei diritti speciali di prelievo, la piena operatività dei nuovi strumenti FMI (come la Resilience and Sustainability Trust), e un controllo più trasparente sul potere delle agenzie di rating. Emergono anche aperture verso l’uso coordinato di valute digitali e sistemi di pagamento interoperabili.

Una riforma sistemica dell’architettura finanziaria internazionale

Il Compromesso di Siviglia si chiude con due sezioni aggiuntive. La prima, su scienza, tecnologia e innovazione, denuncia con forza il rischio che la transizione digitale allarghi ulteriormente le disuguaglianze e propone misure per colmare i divari di connettività, sostenere ecosistemi nazionali di innovazione, e facilitare l’accesso dei paesi in via di sviluppo a tecnologie strategiche, compresa l’intelligenza artificiale, trattando digitalizzazione, inclusione finanziaria e trasferimento tecnologico come leve congiunte per rilanciare produttività, occupazione e cooperazione internazionale.

L’ultima, su dati, monitoraggio e prossimi passi, riconosce l’urgenza di rafforzare i sistemi statistici nei paesi in via di sviluppo, investendo in capacità locali, interoperabilità e nuovi strumenti di raccolta, dai dati geospaziali alle piattaforme digitali. Viene inoltre rilanciato il dibattito su metriche alternative al PIL, come gli indicatori di vulnerabilità multidimensionale. Ma la vera novità è la riforma del processo di follow-up: dal 2026, il Forum sul finanziamento allo sviluppo di ECOSOC adotterà un ciclo biennale di revisione per monitorare più da vicino ogni area tematica, con l’obiettivo di rafforzare l’accountability e rendere più efficace il coordinamento tra attori multilaterali, regionali e nazionali.

In questo contesto, la Quarta conferenza sul finanziamento allo sviluppo assume un significato che va oltre la semplice revisione dell’Agenda di Addis Abeba. A Siviglia, nei prossimi giorni, non si discuterà un nuovo trattato (di fatto già definito e approvato grazie al lavoro portato avanti negli scorsi due anni), ma si aprirà un confronto ampio e urgente su ciò che non funziona dell’architettura finanziaria internazionale, e su quali riforme e strumenti possono essere adottati per intervenire.

Più che uno spazio negoziale, l’incontro di Siviglia rappresenta un tentativo di fare il punto e dare coerenza a un mosaico di iniziative frammentate che si sviluppano su molteplici livelli (domestico, multilaterale, bilaterale, tematico) e che spesso avanzano senza una cornice condivisa. È l’occasione per razionalizzare il dibattito, creare allineamento politico, rilanciare il momentum per una riforma sistemica della finanza internazionale e iniziare a immaginare nuovi strumenti e nuovi equilibri per risanare la frattura fiscale tra paesi ad alto e basso reddito, in un’epoca già segnata da crisi sistemiche e crescente frammentazione.

La Conferenza di Siviglia segna un passaggio di fase già reso evidente dalla COP29 di Baku e destinato a consolidarsi alla COP30 di Belém: il tempo dei grandi target è finito. Il sistema multilaterale è chiamato ora a discutere strumenti concreti di implementazione, a costruire nuovi assetti globali capaci di affrontare diseguaglianze sistemiche con risposte operative, verificabili e condivise, prendendo atto dei nuovi equilibri nascenti tra paesi ad alto, medio e basso reddito. La credibilità del multilateralismo non si misurerà più sulle dichiarazioni, ma sulla capacità di affrontare diseguaglianze sistemiche con risposte operative, verificabili e condivise.

 

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In copertina: il premier spagnolo Pedro Sanchez Quarta conferenza sul finanziamento allo sviluppo  © UN Department of Economic and Social Affairs via Flickr