Torna il condono. Torna nei corridoi del Parlamento e nelle piazze della campagna elettorale, soprattutto in Campania, dove da sempre la materia edilizia è un terreno scivoloso, capace di muovere consenso e tensioni. Torna nel dibattito politico attraverso un emendamento alla Legge di bilancio che ricalca alla lettera la proposta di legge presentata lo scorso giugno in Commissione ambiente dalla deputata Imma Vieri. Un copia-incolla che riapre il cassetto di una stagione che sembrava chiusa con il 2003, quando l’ultimo condono edilizio diede un colpo duro al territorio già fragile e insicuro.

Oggi, però, l’Italia è ancora più vulnerabile, il cambiamento climatico intensifica alluvioni e frane, un paese dove il suolo ogni anno continua a essere consumato a una velocità di oltre due metri quadrati al secondo, un’Italia che perde valore economico e sociale ogni volta che un abuso viene tollerato, legittimato o addirittura premiato. Per questo, l’idea di un nuovo condono non è soltanto un ritorno al passato, ma l’ennesima minaccia a un territorio che non ha più margini da sacrificare.

Si tende a pensare che l’abusivismo edilizio sia un fenomeno residuo, una ferita del passato che lentamente si sta rimarginando. I dati raccontano l’opposto. Nel Rapporto BES (benessere equo e sostenibile), l’ISTAT ha registrato per il 2022 un incremento del 9,1% delle abitazioni abusive, un aumento che non si vedeva dal 2004, l’anno successivo all’ultimo grande condono.

La distribuzione geografica conferma il peso dei territori più esposti: in Campania, a fronte di ogni 100 case costruite nel rispetto delle regole, se ne realizzano 50,4 abusive; in Calabria si arriva a 54,1. È una proporzione che fotografa un sistema in cui l’illegalità edilizia non è un’eccezione ma una componente strutturale del mercato costruito.

Lo stesso Rapporto ecomafia di Legambiente documenta come il ciclo del cemento rappresenti una delle filiere illegali più redditizie. Dal 2021 al 2024 i reati accertati sono aumentati del 43,5%, raggiungendo nel 2024 la cifra di 13.621 illeciti penali. Più della metà riguarda le regioni a tradizionale presenza mafiosa, dove la costruzione abusiva è spesso intrecciata a interessi criminali che vanno dal controllo delle cave alle estorsioni, dall’infiltrazione nei cantieri alle finte imprese di costruzione.

A questa crescita si affianca un altro dato che pesa come un macigno: l’incapacità strutturale di far rispettare la legge. Tra il 2004 e il 2022, nelle cinque regioni più critiche – Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Lazio – sono state emesse oltre 70.000 ordinanze di demolizione, ma ne è stato eseguito appena il 15,3%. Nella maggior parte dei casi, quegli immobili continuano a esistere, a generare rischio, a occupare suolo pubblico o paesaggi vincolati. In alcuni comuni costieri il numero di ordinanze supera le 400 per singola amministrazione, ma le demolizioni restano una rarità, bloccate da mancanza di fondi, pressioni politiche, opposizioni locali, lungaggini burocratiche o, peggio, dalla speranza di un nuovo condono.

Un'inerzia che ha radici anche nell'azzeramento dei fondi: nel 2021 è stata svuotata la norma che stabiliva il potere sostitutivo dei Prefetti, e negli anni successivi non sono stati rifinanziati né il Fondo demolizioni presso il Ministero delle infrastrutture né quello presso Cassa Depositi e Prestiti.

Le conseguenze ambientali di una sanatoria: un paese più fragile

Uno degli aspetti più problematici dei condoni è la loro capacità di produrre un effetto emulativo. Lo ha ribadito anche l’indagine conoscitiva recentemente conclusa alla Camera sull’impatto ambientale delle misure in ambito edilizio: ogni sanatoria alimenta la convinzione che l’abuso sia un rischio calcolato, un investimento che prima o poi sarà premiato. Lo dicono gli stessi parlamentari nel documento: quando lo stato manda il messaggio che è possibile costruire fuori dalle regole e ottenere in seguito una regolarizzazione automatica, scompaiono deterrenza e prevenzione.

Le conseguenze ambientali sono profonde. Gran parte degli edifici abusivi sorge in zone che non avrebbero mai potuto, né dovuto, ospitare strutture permanenti: letti di fiumi, aree costiere soggette all’erosione, pendii instabili, aree agricole trasformate arbitrariamente in residenziali. Quando la pioggia intensa cade su terreni impermeabilizzati, quando un muro sostiene male un terreno che frana, quando un corso d’acqua non trova più il suo naturale spazio di espansione, il rischio si trasforma in disastro.

C’è poi il tema, spesso sottovalutato, del paesaggio. L’ISTAT, nel già citato Rapporto BES, ha ricordato che il mancato rispetto di piani urbanistici e vincoli di tutela “scarica costi altissimi sulla società in termini di degrado del paesaggio”. I manufatti abusivi, disseminati lungo le coste, nelle aree protette, nelle zone rurali di pregio, generano un danno che è insieme estetico, identitario ed economico. La perdita di qualità del paesaggio indebolisce il turismo, altera ecosistemi delicati, compromette la biodiversità.

E infine c’è l’effetto più subdolo: il condono rafforza le filiere illegali. Lo ha ricordato bene Enrico Fontana, responsabile dell’Osservatorio nazionale ambiente e legalità di Legambiente, che a Materia Rinnovabile dice: “Mentre l’abusivismo edilizio continua a crescere, rendendo ancora più grave il consumo di suolo, moltiplicando il dissesto idrogeologico e gli sfregi al paesaggio, vengono azzerati i fondi per sostenere i comuni nelle demolizioni e si lavora all’ennesimo condono. Una politica sciagurata, che farà lievitare ancora l’industria del mattone illegale, a scapito delle imprese sane che operano sul mercato dell’edilizia e dell’ambiente. Non a caso registriamo ogni anno nel Rapporto ecomafia di Legambiente l’aumento dei reati nel ciclo del cemento, da quelli relativi all’edilizia e all’urbanistica fino alle attività estrattive, che nel 2024 hanno superato la soglia dei 13.000 illeciti penali, concentrati per il 41,8% nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa, cioè Campania, Puglia, Calabria e Sicilia”.

Ogni sanatoria manda un segnale preciso: chi rispetta le regole ha perso tempo. Legambiente si oppone da anni a nuove operazioni di sanatoria, chiedendo invece l’approvazione di un vero piano nazionale di lotta all’abusivismo. I punti fondamentali includono il rifinanziamento dei fondi per le demolizioni, oggi praticamente azzerati, l’estensione dei poteri sostitutivi dei prefetti anche alle vecchie ordinanze rimaste inevase, e l’introduzione di sanzioni più stringenti per i funzionari che stipulano contratti di servizi con immobili abusivi, violando la legge.

Lo stato, per risultare credibile, deve essere in grado di far rispettare ciò che firma, e per farlo occorrono risorse e una governance capace di agire anche quando i comuni sono inerti o sotto pressione. “L’Italia ha bisogno di un piano nazionale di lotta all’abusivismo edilizio, con risorse adeguate e pieno potere ai prefetti di intervenire quando i comuni non demoliscono”, conclude Fontana.

Rigenerare l’esistente

Di fronte a un contesto così complesso, la via d’uscita non è costruire ancora, tantomeno sanare ciò che è illegale, ma rigenerare ciò che già esiste. Il patrimonio edilizio italiano, secondo i dati riportati nel Quaderno del Green Building Forum di GBC Italia, è composto per il 93% da edifici privati, di cui l’88% a uso residenziale e con oltre cinquant’anni sulle spalle. Si tratta di un parco immobiliare obsoleto sotto il profilo energetico, spesso insicuro dal punto di vista strutturale e quasi sempre inefficiente. Intervenire su questo patrimonio significa ridurre consumi, emissioni e costi energetici, migliorare il comfort abitativo, aumentare la sicurezza sismica e idraulica, restituire valore economico e sociale ai quartieri. La transizione energetica e climatica passa anche da qui.

Le direttive europee sulle “case green”, spesso percepite come onerose, rappresentano in realtà un’opportunità per modernizzare un comparto che oggi assorbe una quota enorme di energia e produce una parte significativa delle emissioni nazionali.

GBC Italia ha sviluppato una roadmap di transizione energetica e climatica per l’ambiente costruito che traccia un percorso progressivo fino al 2050. Entro il 2030 si prevede la riqualificazione del 10% del patrimonio edilizio esistente, entro il 2040 del 30%, fino ad arrivare al 50% nel 2050. Parallelamente, le nuove costruzioni e le ristrutturazioni importanti dovranno essere edifici a emissioni zero, con target specifici che si stringeranno progressivamente.

Non si tratta solo di efficienza energetica. La roadmap include tre aree d’azione: decarbonizzazione del costruito, circolarità dei materiali e qualità e resilienza degli edifici per l’adattamento ai cambiamenti climatici. I protocolli di certificazione energetico-ambientale come LEED e i sistemi GBC hanno già certificato circa 17 milioni di metri quadrati in Italia, equivalenti a una città come Firenze, con altri 13 milioni in corso di certificazione. Questi edifici dimostrano che è possibile costruire e ristrutturare con standard elevati di sostenibilità.

Secondo elaborazioni di The European House – Ambrosetti, con l’attuale trend di crescita dei green building certificati LEED entro il 2030 si potrebbero risparmiare 474.672 tonnellate di CO₂ all’anno, 3,6 miliardi di litri d’acqua e 928.442 tonnellate di rifiuti nel prossimo decennio. Il valore economico delle esternalità evitate supererebbe i 300 milioni di euro annui.

Rigenerare non significa solo riqualificare l’interno delle abitazioni. Significa ripensare interi isolati, recuperare edifici dismessi, trasformare ex aree industriali, rigenerare spazi pubblici, ridurre l’impermeabilizzazione del suolo e restituire verde e servizi ai quartieri. Significa immaginare città più compatte, più vivibili, più resilienti alle crisi climatiche, costruire valore duraturo, non consenso effimero.

 

In copertina: immagine Envato