Che Mario Draghi non sia mai stato particolarmente sensibile a clima e transizione ecologica è cosa nota. Ma per il suo indubbio prestigio – e per la tendenza di politica, media e soprattutto della Commissione europea a prendere per oro colato ogni sua parola (anche se poi ben poco delle sue proposte più innovative viene realizzato) – quando le sue affermazioni rivelano una certa insensibilità o forse pure una insufficiente conoscenza della materia, è necessario sottolinearlo e notarlo.

Perché nell’alto discorso di due giorni fa alla Conferenza organizzata dalla Commissione europea “Un anno dopo il rapporto Draghi”, accanto a frasi memorabili, ci sono anche alcune affermazioni in tema di decarbonizzazione e sistema energetico, che contraddicono alcune delle sue stesse raccomandazioni; Draghi ci dice ad esempio alla fine del suo intervento che “dobbiamo andare oltre le strategie generiche e le scadenze posticipate. Abbiamo bisogno di date e risultati concreti, e di essere ritenuti responsabili per essi. Le scadenze dovrebbero essere sufficientemente ambiziose da richiedere una reale concentrazione e uno sforzo collettivo. Questa è stata la formula alla base dei progetti di maggior successo dell’Europa: il mercato unico e l’euro. Entrambi sono stati portati avanti attraverso fasi chiare, traguardi precisi e un impegno politico costante. 

Green Deal: risultati e discontinuità

Appunto. Questa era, data l’evidenza dell’emergenza climatica ma anche delle sfide geopolitiche ed economiche che hanno reso ancora più urgenti sicurezza e “sovranità” europea, l’idea del grande progetto del Green Deal, costruito in modo certo imperfetto, ma sulla base di “traguardi precisi, sforzo collettivo”, la promessa di un “impegno politico costante” e una strategia chiara: riduzione progressiva della dipendenza dai fossili e dai loro produttori, priorità a rinnovabili e un sistema energetico decentrato, economia circolare, efficienza energetica per arrivare a zero emissioni nette nel 2050. E se si è in buona fede, non si può che constatare che COVID e guerre hanno reso questa strategia ancora più necessaria, anche se sicuramente più difficile e onerosa. Peraltro i “risultati” ci sono. Siamo abbastanza in linea con gli obiettivi di riduzione delle emissioni posti per il 2030, le rinnovabili sono già oggi la fonte di produzione di energia elettrica meno cara, ogni anno il nostro fabbisogno di gas si riduce di circa il 20%, l’Europa rimane leader nel settore delle tecnologie dell’efficienza energetica, e solo nel 2025 20 milioni di tonnellate di CO2 verranno risparmiate per il passaggio alla mobilità elettrica; e come ormai provato e riprovato, le imprese che investono in sostenibilità e “inventano” nuovi prodotti, sono anche quelle più presenti nei mercati internazionali e hanno prospettive produttive e di creazione di posti di lavoro positive.

Ma è indubbio che per ragioni politiche e culturali, di interesse economico di breve periodo di settori potenti e ostili al cambiamento, di forte competizione per risorse pubbliche e private, la situazione oggi è lungi dall’essere lineare e i segnali di discontinuità, esitazione, incertezza, regressione sulla strada della realizzazione del Green Deal sono evidenti; purtroppo sono invece meno evidenti gli effetti che questa incoerenza avrà sulla competitività e sviluppo economico e sociale del Vecchio continente nei prossimi anni. E sicuramente, il contributo di Draghi in questo dibattito non è sempre positivo. Anzi.

Vorrei fare tre esempi tratti dal suo discorso di due giorni fa.

La CSRD e gli obblighi di rendicontazione

Draghi dice “Mentre procediamo con la decarbonizzazione, la transizione deve essere anche flessibile e pragmatica. La Commissione ha alleggerito alcuni dei requisiti di rendicontazione più onerosi attraverso il suo Omnibus sulla sostenibilità. Tuttavia, in alcuni settori, come quello automobilistico, gli obiettivi si basano su ipotesi che non sono più valide.” Draghi fa qui riferimento a un provvedimento proposto dalla Commissione europea nel febbraio scorso, detto “omnibus”, che rallenta, rinvia, alleggerisce una serie di obblighi di rendicontazione e due diligence ambientale, modificando la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) e la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD);  l'obiettivo è ridurre gli oneri amministrativi per le imprese, in particolare per le PMI, e rendere più accessibili le normative sulla sostenibilità attraverso un sistema di reporting più snello e l'introduzione di uno standard volontario per le PMI. Deciso senza alcuna valutazione di impatto e nel bel mezzo del processo di applicazione, quando molte imprese avevano già investito e si stavano adattando alla normativa, questo provvedimento – ancora in via di adozione- più che semplificare ha reso incerto e in realtà molto più complicato per molte imprese capire la direzione da prendere e gli obblighi da rispettare; e ha dato segnale di incertezza anche rispetto alla possibile modifica di altre norme già adottate. E non né un caso che proprio la Banca centrale europea, l’istituzione che Draghi ha brillantemente guidato, lo abbia fortemente criticato, sostenendo che questa “semplificazione” limiterebbe l'accesso a dati essenziali per la valutazione dei rischi finanziari e climatici, minacciando la stabilità finanziaria, la competitività dell'UE e il raggiungimento degli obiettivi di finanza sostenibili.

Gli obiettivi climatici nel settore auto

Anche la seconda affermazione di Draghi, secondo la quale gli obiettivi climatici in alcuni settori come quello automobilistico si basano su “ipotesi che non sono più valide” lascia perplessi. Innanzitutto, non è chiaro quali sarebbero le ipotesi non più valide. Di certo non quella della necessità di accelerare sulla riduzione di emissioni e inquinamento del settore dei trasporti; la mobilità elettrica già oggi e nonostante i tanti ritardi e ostacoli riduce drasticamente l'impatto ambientale e il consumo energetico, offre costi di gestione inferiori, migliora l'efficienza, l'affidabilità e la performance dei veicoli e promuove la decarbonizzazione, e se combinata con una decisa svolta fuori dal “tutto auto” verso più trasporto pubblico e mobilità dolce,  diventa una leva fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi climatici e anche dello sviluppo di un’industria a prova di clima. Certo, siamo in ritardo e i 13 milioni d occupati di cui parla Draghi devono essere sostenuti e accompagnati e non si inizia da zero; ma è un fatto che in questi anni, le case automobilistiche europee, che hanno sostenuto a suo tempo la definizione di una data certa di uscita dai motori a combustione, hanno preferito puntare su auto di alta gamma e ricchi dividendi ai loro azionisti, invece di investire in ricerca e sviluppo di auto elettriche abbordabili “made in Europe”.

Inoltre, come dice lo stesso Draghi bisogna “ottenere risultati in pochi mesi e non in anni”. E allora bisogna constatare che biocarburanti e e-fuels non rappresentano una alternativa sostenibile e adeguata, ma solo la scusa per continuare a coltivare l’illusione che il motore combustione possa diventare “pulito” in un futuro lontano e quindi non vale la pena cambiare tutto adesso.

Gli e-fuels sono carburanti sintetici prodotti combinando idrogeno verde e CO₂ catturata, ma la loro produzione è per ora limitata, estremamente costosa e meno efficiente rispetto a un motore elettrico. E i bio-carburanti non sono a emissioni “zero” e non saranno disponibili su larga scala. Riaprire le scadenze per il divieto di vendita dei veicoli a combustione interna introdurrebbe confusione e incertezza, ridurrebbe lo sviluppo di auto elettriche “made in Europe” o almeno “anche” made in Europe e gli investimenti nella transizione e nello sviluppo tempestivo di competenze specifiche.

Insomma se, come chiede Draghi, davvero la prossima revisione della direttiva dovesse applicare onestamente un “approccio tecnologicamente neutro e fare il punto sugli sviluppi del mercato e della tecnologia”, possiamo già dire che arriverebbe alla conclusione che il “full-electric” è l’unica strada da seguire: in altre parole, se essere tecnologicamente neutrali significa fare emergere senza preconcetti le tecnologie più efficaci e più convenienti e lasciare il mercato agire, allora bisognerà ammettere che ci sono tecnologie che oggi funzionano meglio, sono già operative e costano meno; dunque anche con un approccio “neutrale” rinnovabili, efficienza energetica e elettrificazione sono le direzioni da prendere senza indugi. Quanto alla capacità del mercato di essere neutro, Draghi stesso sottolinea che l’UE è caduta nella trappola di avere “fiducia cieca nel fatto che le forze di mercato creeranno nuovi settori”. Non è cosi. Ci vogliono regole che indicano la direzione e finanze per sostenerli. Che è esattamente, lo ripetiamo, ciò che ha tentato di fare il Green Deal.

Energia nucleare e fonti rinnovabili

Inoltre, Draghi mette disinvoltamente sullo stesso piano dal punto di vista delle priorità di investimento e di effettiva istallazione, nucleare e rinnovabili. E ripete senza davvero dimostrarlo un concetto che anche la Presidente Von Der Leyen aveva già citato nel suo discorso sullo Stato dell’Unione la scorsa settimana e cioè che il nucleare serve per garantire un carico di base per rispondere all’intermittenza delle rinnovabili. Anche qui, la realtà e l’esperienza ci dicono ben altro. Per risolvere l’intermittenza la risposta sono batterie e accumulo, che stanno conoscendo uno sviluppo fenomenale e una riduzione drastica dei prezzi. Tutto il contrario del nucleare.

Insomma, se ci basiamo sulla logica di Draghi, agire “europeo” e concentrarsi sui settori più innovativi ed efficaci, il nucleare non serve per assicurare una decarbonizzazione in tempi rapidi: i suoi costi sono insostenibili, anche nei paesi che già lo utilizzano, i tempi di realizzazione lunghissimi e nessuno dei gravi problemi che ne hanno frenato lo sviluppo negli ultimi anni, dalle scorie al bisogno di acqua, sono stati risolti. Anche gli Small Modular Reactors sono ancora molto lontani dall’essere operativi, non sono poi cosi piccoli né a buon mercato, necessitano enormi sussidi pubblici per avanzare; e in ogni caso, è indubbio che l’energia nucleare non riuscirà nel breve e medio periodo a fare abbassare i prezzi dell’energia. E la risposta non può essere quella di rassegnarsi a dipendere dal gas americano invece che da quello russo.

La narrativa di Draghi su transizione e Green Deal

In conclusione, il forte richiamo di Draghi ad agire “in europeo”, a evitare la “trappola” di una “azione nazionale e non coordinata”, la spinta a mettersi d’accordo almeno fra alcuni paesi su strumenti di debito comune e procedure di decisione che evitino la malattia della frammentazione e dei veti, rappresentano stimoli di rilievo per l’UE spenta e inefficace che molti cittadini e cittadine vedono.  E’ necessario e meritorio che Draghi continui con coerenza a sottolineare in modo dettagliato quali sono le cose da fare subito, dalla radicale revisione della logica sempre più nazionale degli aiuti di stato e degli appalti pubblici, al debito comune, al superamento dei veti, alla prospettiva federale come unico futuro davvero risolutivo della debolezza della UE, perché questo può avere un impatto non solo sul dibattito pubblico ma anche sull’azione della stessa Commissione Europea, che, ricordiamo, ha il potere esclusivo di iniziativa nel sistema comunitario; ma è anche importante che la narrativa di Draghi su transizione e Green Deal sia più informata e meno superficialmente affine ai settori meno interessati alla sua effettiva realizzazione e che proprio per questo contribuiscono a rallentare competitività e innovazione.

In copertina: Mario Draghi alla Conferenza “Un anno dopo il rapporto Draghi” - © Dati Bendo, Commissione Europea