Negli ultimi dodici mesi gli italiani hanno eliminato dal proprio guardaroba una media di 7,6 capi di abbigliamento a persona. A dirlo è l’Osservatorio Ipsos, che conferma una tendenza ormai evidente: l’accumulo e lo smaltimento di abiti di scarsa qualità non alimentano la circolarità del settore tessile, ma rischiano piuttosto di soffocarlo, come denunciano da tempo gli operatori europei di riutilizzo tessile. Realizzato per conto del Consorzio Erion Textiles, lo studio rivela una dismissione diffusa e consistente di abiti, scarpe e stracci o tessuti danneggiati. Le motivazioni principali sono due: da un lato il deterioramento dei capi, dall’altro il semplice “non utilizzo”. Dal punto di vista territoriale sono i cittadini del Nord Italia a contribuire di più al fenomeno, con una media di 8,4 capi contro i 6,4 del Sud.
Le proposte per affrontare la crisi del riutilizzo tessile
In assenza dei contributi ambientali previsti dal tanto atteso sistema europeo di responsabilità estesa del produttore (EPR) e di tecnologie di riciclo ormai mature, gli operatori denunciano l’insostenibilità economica della gestione dei rifiuti tessili. Nei magazzini si accumulano montagne di capi di scarso valore, difficili da collocare sul mercato, con il rischio di finire in discarica.
La questione è finita sui tavoli del MASE che l’11 settembre ha ospitato un incontro tra gli stakeholder della filiera, includendo anche i funzionari del Ministero delle imprese e del made in Italy (MIMIT). “È stato un incontro utile - dice a Materia Rinnovabile Andrea Fluttero, presidente di UNIRAU, associazione che rappresenta i raccoglitori di abiti usati –. Abbiamo avuto l’opportunità di spiegare le criticità della filiera e il limiti economici del riuso che dipende strettamente dalla qualità della raccolta”. Fluttero si riferisce all’aumento esponenziale di prodotti fast fashion di poco valore, che sono difficilmente rivendibili e costosi da smaltire. “Non ci aspettiamo di trovare delle soluzioni semplici che risolvano tutto immediatamente, ma nelle prossime settimane con gli altri operatori ci siamo promessi di presentare al MASE una proposta che possa sostenere la filiera almeno fino all’introduzione dei contributi ambientali EPR”, aggiunge Fluttero.
Le misure proposte si ispireranno al position paper presentato a marzo dall’Associazione Riciclatori Europea FEAD e dalla Confederazione europea delle industrie del riciclo EuRIC, riassumibile in una decina di richieste, tra cui: riduzione dell'IVA per riutilizzo, riparazione e riciclo; eliminazione dell’esenzione doganale di 150 euro per l’import di prodotti fast fashion; sospensione temporanea delle tariffe comunali sulla raccolta tessile, obbligatoria in Europa dal primo di gennaio; maggiore protezione dalla competizione sleale con paesi extra UE e tanto altro.
Tra le potenziali soluzioni si parla anche di un contributo ambientale di 40 milioni di euro anticipato dallo Stato, che poi, una volta entrato in vigore l’EPR, si farebbe rimborsare dai produttori tessili. Un’iniziativa simile a quella adottata dal governo francese, che ha deciso di supportare la filiera con 57 milioni di euro, aumentando il contributo ambientale a 223 euro per tonnellata nel 2025 e a circa 228 euro nel 2026.
La guerra al fast fashion
Dal report dell’Osservatorio Ipsos emerge anche una significativa percentuale di giovani (18-26 anni) che, per motivazioni legate alle tendenze, dichiara di disfarsi di un capo perché “fuori moda” oppure a causa di un acquisto online “non soddisfacente". Comprati a basso prezzo da piattaforme e-commerce prevalentemente cinesi, già multate per concorrenza sleale e greenwashing, i capi d’abbigliamento di moda ultraveloce non danneggiano solo l’ambiente, ma anche l’industria della moda europea.
Per denunciarlo, martedì 16 settembre Confindustria Moda e le federazioni europee del tessile e dell’abbigliamento hanno firmato una dichiarazione congiunta contro l’ultra fast fashion: nel 2024, si legge nel comunicato, sono stati importati in Europa circa 4,5 miliardi di pacchi, circa il 20% delle vendite online totali.
Secondo l’industria questo modello genera una sovrapproduzione di capi dalla durata estremamente breve, causando un aumento senza precedenti dei rifiuti tessili e dei consumi di abbigliamento. Inoltre, esercita una pressione insostenibile sulle imprese europee, in particolare sulle PMI, che si sforzano di rispettare elevati standard ambientali, etici e sociali.
“Con questa firma, insieme a Euratex e alle federazioni europee della moda, chiediamo una reazione immediata per la definizione di regole chiare e controlli efficaci per contrastare un modello che mette a rischio la competitività, l’occupazione e la sostenibilità delle nostre imprese, della filiera e dei nostri brand”, ha dichiarato il presidente di Confindustria Moda, Luca Sburlati.
Sulla stessa frequenza delle proposte fatte dai riciclatori, il settore tessile europeo chiede a Bruxelles misure più incisive: dalla riforma del Codice Doganale, con l’eliminazione dell’esenzione dai dazi sotto i 150 euro, all’introduzione di tariffe sui piccoli pacchi, fino al recupero dell’IVA sulle spedizioni di ultra fast-fashion. Tra le proposte anche l’obbligo di un rappresentante legale UE per le piattaforme di e-commerce, l’uso degli strumenti del Digital Services Act e del Digital Markets Act contro le pratiche scorrette e un confronto diretto con la Cina per frenare modelli produttivi in contrasto con gli obiettivi ambientali.
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